Il bisogno di essere accolti precede ogni bisogno di essere amati.
(Emmanuel Levinas)
In un contesto urbano caratterizzato da relazioni rarefatte e responsabilità frammentate, Su-yeon, tredici anni, si ritrova priva di riferimenti adulti dopo la morte dell’unica figura familiare con cui conviveva. Le istituzioni, che tollerano temporaneamente la sua permanenza nell’abitazione della nonna, le comunicano con efficienza burocratica l’imminente possibilità di essere trasferita in una struttura per minori. La condizione in cui si trova non è eccezionale, ma rientra nella categoria di quelle vite amministrate ai margini: soggettività giovani, considerate incapaci di autodeterminarsi e dunque da collocare entro dispositivi protettivi, spesso impersonali.
Nel tentativo di evitare questo esito, Su-yeon orienta la propria attenzione verso una famiglia che ha appena adottato una bambina di sette anni, Seon-yul. La coppia, visibilmente entusiasta della scelta, costruisce attivamente una narrazione positiva del loro nucleo, anche attraverso la condivisione pubblica di contenuti online. Per Su-yeon, questa famiglia rappresenta una possibilità: non tanto di affetto, quanto di reinserimento all’interno di una struttura simbolica riconosciuta e legittimata.
Per Su-yeon, che osserva da fuori, questa visione appare come una promessa. Non tanto di amore, quanto di inclusione. Così avvia un lento e strategico avvicinamento alla nuova arrivata, sperando che il contatto con la bambina sia la porta d’ingresso per un’esistenza più "narrabile", più giustificata agli occhi del mondo adulto. Ma il contatto si carica presto di inquietudine. Seon-yul, lontana dall’innocenza stereotipata dell’infanzia, custodisce rituali e inclinazioni che sfiorano l’abisso: barattoli colmi di insetti nascosti in vicoli, attenzioni che sembrano amore ma si rivelano forme di controllo o di crudeltà reiterata. “Devi ascoltare e comportarti bene, solo allora sarai amata” sussurra. Una formula che è già ideologia: il condizionamento dell’affetto in cambio di conformità.
Il film adotta un’impostazione narrativa che non mira alla verosimiglianza realistica, ma alla costruzione di una tensione latente. Le azioni dei personaggi adulti, in particolare, risultano spesso poco credibili se considerate in termini logico-comportamentali: la disponibilità ad accogliere un’adolescente sconosciuta in casa propria, o l’assenza di reazioni plausibili di fronte a certe anomalie, non sono elementi pensati per rafforzare la coerenza narrativa, ma sembrano piuttosto fungere da strumenti di dislocazione del senso.
Alcune sequenze, come quella in cui le due bambine vengono separate dalla folla su un autobus, evidenziano con lucidità la vulnerabilità dell’infanzia in uno spazio pubblico che non si assume alcuna responsabilità verso chi non può ancora esercitare pienamente la propria agency. Tuttavia, il film fatica a trasformare questi momenti in un discorso coeso. La trama si sviluppa in modo episodico, lasciando intuire piuttosto che argomentare, suggerendo connessioni che raramente vengono articolate.
Il legame tra Su-yeon e Seon-yul si configura come un tentativo temporaneo di coabitazione tra solitudini, non necessariamente come un percorso di solidarietà. Entrambe condividono un contesto affettivo disgregato, in cui le strutture educative e familiari appaiono più come spazi da decifrare che come ambiti di protezione. L’infanzia, qui, non è idealizzata, ma trattata come una fase dell’esistenza soggetta a tensioni strutturali: invisibilità, esclusione, manipolazione.
Waterdrop, esordio nel lungometraggio di Choi Jongyong, propone un approccio disallineato rispetto ai codici classici del cinema sociale. L’autore non offre chiavi interpretative dirette, né cerca soluzioni concilianti. Il suo interesse sembra risiedere nella rappresentazione delle asimmetrie affettive e delle dinamiche di inclusione/esclusione più che nella denuncia esplicita di un sistema.
Il film, pur disomogeneo, contiene momenti di osservazione penetrante. Non cerca di generare empatia, ma di collocare lo spettatore in uno spazio critico, in cui il disagio non deriva da eventi drammatici, ma dalla normalizzazione dell’assenza di cura. In questo senso, più che un racconto sull’infanzia abbandonata, Waterdrop si presenta come una riflessione sulle strategie di sopravvivenza soggettiva in un contesto che funziona secondo logiche impersonali.
Non si è mai troppo piccoli per essere trascurati.
(Pascal Bruckner)
22° Asian Film Festival