
Recensione di Beatrice On 29-Nov-2024
I tatuaggi sono ciò che fai vedere al mondo. Le cicatrici sono ciò che il mondo ha deciso di far vedere di te.
Germania
Jenny è una giovane donna che ha la necessita di accompagnare la sua identità segnata da cicatrici invisibili con extension tatuaggi, piercing, glitter, smalto sfavillante e makeup adolescenziale.
Al centro della sua esistenza, condivisa con il compagno Bolle, c'è una spirale di dipendenza dal crystal meth, una sostanza che anestetizza la banalità e il dolore del quotidiano. La loro unione, sospesa tra apatia e necessità, trova un rifugio illusorio nel ritmo frenetico della musica e nello stordimento chimico, che agiscono come portali verso un'esistenza alterata. Non semplici strumenti, ma veri e propri veicoli per tentare di sentire qualcosa in un mondo che spesso risuona vuoto.
Quando i servizi sociali intervengono, Jenny è costretta a incontrare Marla, un’ostetrica la cui presenza, inizialmente accolta con sospetto, si trasforma in un rapporto che sfida le barriere del pregiudizio. Questo legame si rivela un’occasione di apertura per Jenny, che si trova a confessare un segreto profondo: una condanna pendente che la porterà presto in carcere. Decisa a cercare un futuro per sé e per il figlio che porta in grembo, Jenny sceglie di anticipare la pena, sperando in un programma madre-figlio che le permetta di tenere la sua bambina vicina.
La nascita della figlia si configura come un attimo di epifania, una promessa di redenzione che però non è nelle sue mani mantenere. Il film di Chiara Fleischhacker affronta con delicatezza e senza giudizi una condizione di vita segnata dall’erranza e dal desiderio di riscatto. Non si indulge nel moralismo o nel sensazionalismo, ma si esplorano le dinamiche della responsabilità e della possibilità di cambiamento. Jenny rappresenta la lotta per trascendere i propri limiti, mentre Bolle, bloccato in un’adolescenza perenne, resta l’immagine di chi non riesce a emanciparsi dal proprio naufragio interiore.
"Vena" si distingue per la sua attenzione sensoriale e corporea, per un’intimità visiva che permette allo spettatore di vivere le emozioni attraverso la pelle di Jenny. La regia evita ogni enfasi, costruendo un linguaggio rispettoso e minimale, anche in momenti di grande impatto come la rappresentazione del parto. Le immagini si fanno testimoni di un’esistenza che si rivela senza bisogno di sovrastrutture, puntando all’essenza.
Il finale, segnato da una cesura dolorosa, si ricollega al tema universale della maternità come forza dirompente e conflittuale, che porta con sé un’interrogazione profonda sulle scelte, le rinunce e la capacità di sperare oltre i limiti imposti dalla realtà.
«In Vena, la protagonista trae forza dal trauma dell’attaccamento, nonostante la dura realtà che vive o forse proprio in virtù di essa» spiega la regista. «Il film mette a tema due domande fondamentali: quanto può essere traumatizzante una pena detentiva e come si legittima la separazione tra madre e figlio, soprattutto quando si parla di riabilitazione e risocializzazione dei detenuti». «Il fragile processo che porta al legame fra una madre e un figlio può vivere una rottura che potrebbe protrarsi per generazioni. Le persone ferite diventano incapaci di accettare affetto e franchezza, e si abbandonano piuttosto a paure e crisi arrivando a commettere nuovamente dei reati… È un circolo vizioso che va spezzato».
Sto in silenzio ma se ti avvicini puoi sentire come mi sto strappando dentro.
29-Nov-2024 di Beatrice