Recensione di Beatrice On 08-Nov-2023
Un giorno dovremo essere così organizzati e determinati da fare in modo che la solidarietà possa porre fine alla sofferenza e alla necessità di ricorrere alle lotte. Abbiamo già aspettato troppo a lungo.
Foto di repertorio.
Arrivano rifugiati siriani in un villaggio inglese di una ex comunità mineraria.
La testimonianza delle immagini fa comprendere che non sono ben visti; i locali non li vogliono, e l’inserimento sembra complesso.
T.J. Ballantyne, figlio di un ex minatore ormai defunto, proprietario di The Old Oak l’unico pub locale che resiste, sebbene in condizioni economiche disastrose, si presta ad aiutare i siriani e a far riflettere i locali, senza correre il rischio di perdere gli ultimi clienti del luogo.
Le case si stanno svalutando, e quindi venderle per spostarsi è una soluzione impossibile da praticare.
I rifugiati vengono visti come la causa di questa svalutazione, nonché l’ingerenza di culture diverse e ostili.
La guerra tra poveri sembra inevitabile in quanto anche i locali hanno difficoltà a reperire sufficiente denaro per la sopravvivenza.
Il pub è inoltre l’unico spazio pubblico in cui le persone possono incontrarsi e il retrobottega, ormai in disuso, era stato in passato il luogo dove festeggiare e organizzare cerimonie; ora utilizzato come magazzino vede solo la presenza di fotografie che ricordano i tempi della solidarietà, della forza e della resistenza dei minatori e della comunità.
Presentato in concorso al Festival di Cannes 2023 e dopo il frenetico Sorry we missed you, qui Ken Loach conferma la sua coerente militanza socio/politica/cinematografica con un film imperfetto, fortemente didascalico e retorico, a tratti patetico ma assolutamente, inevitabilmente efficace e necessario soprattutto perché dovrebbe essere il suo ultimo film.
Lo striscione dei minatori parla di SOLIDARIETA’, di FORZA e di RESISTENZA, tema incontrovertibilmente presenti nella filmografia del regista come d’altronde quelli del lavoro, della sconfitta della sinistra, del tradimento, della alienazione, della frustrazione e della disperazione che sopravanza quando non c’è lavoro e la comunità si impoverisce.
La commozione che deriva dalla narrazione della storia sembra inevitabile per la nettezza con la quale Loach riesce a costruire delle figure, come in questo caso quella di Ballantyne, che bucano qualunque resistenza emotiva.
Un trascorso difficile il suo che lo ha accompagnato anche a prendere decisioni estreme insieme al ricorso a quel nome, per un cane dal quale è stato raccolto e ricondotto a vita, detto Marra, che significava per i minatori, l’amico ma soprattutto “colui che ti guarda le spalle”. Un uomo pieno di disperazione e di quella speranza definita “oscena” perché ormai “fuori scena”, come l’etimologia della parola rappresenta: un uomo che ha smesso di lottare ma non può smettere di farlo; un uomo che non ha fede ma non può smettere di credere; un uomo che non ha forza ma non può smettere di resistere.
Un film, forse l’ultimo film di Loach che sembra il suo ritratto, quello di una vita dedicata all’arte della lotta, della solidarietà, della resistenza, dell’impossibilità di rinunciare anche solo ad un’idea, quella della lotta di classe, dell’unione delle marginalità e dell’importanza della dignità del lavoro.
Lui attivista britannico e appartenente alla corrente artistica inglese del Free Cinema, ricorre al tema del capro espiatorio come base delle ostilità politico/economico sociali che emerge con prepotenza nella narrativa della comunità ma anche al tema più intimo e individuale del suicidio e della fiducia.
Nel retrobottega c’è scritto qualcosa di indelebile che conferma il tema costante della cinematografia di Loach: “insieme non si muore di fame”, perché un altro mondo è ancora possibile per il regista nato in una famiglia di operai e laureatosi ad Oxford.
Non siamo sicuri che sia ancora possibile questo tipo di cinematografia che ci ha accompagnato per anni e di cui avremo nostalgia: “perché il cinema commerciale dovrebbe finanziare opere che lo attaccano?”, sostiene infatti Loach che anche in questo film è ricorso ad attori non protagonisti, perché alla telecamera non si mente, nessuno nei suoi film ha una roulotte, un assistente personale; si viaggia assieme in un furgone, si è parte di un gruppo.
L’ennesimo, forse l’ultimo film che denuncia e testimonia l’idea indelebile di Loach, la sua arte genuina, il suo cinema artigianale, la sua visione:
Where there was no work, hope drained away, and alienation, frustration and despair took its place.
Sorry Loach, we will miss you!
08-Nov-2023 di Beatrice