
Recensione di Beatrice On 14-Jan-2025
La menzogna che raccontiamo a noi stessi è spesso più confortante della verità che non vogliamo affrontare.
The End si presenta come una riflessione filosofica sullo stato dell'uomo in un contesto post-apocalittico, dove le strutture di potere e i meccanismi di difesa psico-sociale emergono sotto forma di un gioco di specchi tra il passato e il presente. La narrazione non ruota tanto attorno alla funzionalità della residenza/bunker che accoglie i protagonisti, quanto piuttosto alla condizione esistenziale e al disequilibrio interiore che anima chi vi abita. La casa, piena di opere d’arte, comprende una piscina, una biblioteca, una serra, un acquario e un ambulatorio medico; è una sorta di fortezza eretta sulle rovine di una civiltà caduta, il simbolo di una volontà di protezione e di auto-sufficienza, ma anche di un esilio che si autoimporrebbe per eludere la responsabilità dell’impegno civile e morale.
L’obiettivo primario è quello di provare a comprendere come funzionano le persone che la abitano: madre, padre, figlio, medico, maggiordomo, amica.
Il conflitto non è tanto tra il progresso tecnologico e la sua assenza, quanto piuttosto tra coloro che aderiscono a un principio di autoconservazione egoistica e quelli che, attraverso il dialogo e il confronto, cercano di riconoscere e rimediare all’immenso danno che la comunità umana ha inflitto al suo habitat. La giovane donna che penetra nell’inaccessibile fortilizio è simbolo di un’alterità che, pur priva di status e risorse, porta con sé la possibilità di disvelare e trasformare la coscienza di chi ha scelto di isolarsi. L’affetto che il giovane figlio sviluppa per lei diventa il fulcro di una tensione tra l'idealismo progressista e la stagnante ideologia conservatrice che permea l'ambiente familiare. La famiglia stessa si ritrova a fronteggiare una realtà che non è più il frutto di un ordine naturale o immutabile, ma che si palesa come un "mondo in divenire", permeato dall'incertezza e dalla possibilità del cambiamento.
Questa contrapposizione non si dà solo sul piano ideologico, ma si manifesta anche in un gioco ontologico tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. La riflessione filosofica si fa ancora più intensa se si considera che l’immagine del "vecchio" non è semplicemente quella di un passato ormai superato, ma quella di un sistema di pensiero che rifiuta il cambiamento e l’evoluzione. La nostalgia per un’"età dell’oro" scomparsa diventa un veicolo di rimozione: UNA RIMOZIONE COLLETTIVA delle proprie colpe e della propria incapacità di affrontare la realtà.
Il film, in tal senso, si fa espressione di una satira che va oltre la mera denuncia, portando a galla i meccanismi di difesa psicologica collettiva che impediscono di fare i conti con il nostro ruolo nel disastro ecologico e sociale. Il linguaggio scelto da Oppenheimer, con le sue oscillazioni barocche e le sue frasi criptiche, dà vita a una sorta di monologo collettivo che sfida la linearità della narrazione tradizionale. Ogni parola è un riflesso, una contropartita a una visione distorta della realtà, eppure mai del tutto estranea alla nostra esperienza quotidiana. Il mondo interiore dei personaggi è uno spazio frammentato e contraddittorio, dove le emozioni non sono espresse direttamente, ma filtrate attraverso la messa in scena del musical.
Il musical, in questo contesto, assume un significato che va oltre il semplice intrattenimento: esso diventa un atto di elaborazione esistenziale, un modo per esorcizzare i fantasmi del passato e del presente. Così come nel musical si canta per esprimere sentimenti forti, nel film la musica diventa un’evocazione di ciò che non si può dire con le parole. La capacità di rimuovere e di dimenticare si riflette nel canto come atto di sublimazione, ma è proprio questa rimozione a costituire il nucleo del conflitto.
L’intrusione della giovane donna, dunque, non è solo un'invasione fisica nello spazio protetto della famiglia, ma un atto di disruptive revelation, un'apertura verso un altrove che scuote le certezze degli abitanti della casa e li costringe a guardarsi dentro. La prospettiva che essa porta con sé non è tanto quella della moralità pura, quanto quella di una coscienza collettiva che reclama risposte, non più individuali, ma comunitarie. È la riscoperta di un noi che si è dimenticato di esistere.
Così come in The Act of Killing Oppenheimer ha esplorato la capacità dell'individuo di dissimulare la propria colpa, qui egli esplora l’illusione di una vita protetta da tutto, ma al tempo stesso priva di autenticità. La fine di questa famiglia, del mondo che essa rappresenta, non è tanto la fine di un'epoca, quanto la fine di una condizione umana, la cui esistenza è negata dal continuo rifugiarsi in meccanismi di difesa, nell'autoinganno di una continuità che non c'è.
Volevo fare un terzo film in Indonesia con gli oligarchi che sono saliti al potere attraverso il genocidio lì. E non ho potuto perché non potevo tornare in Indonesia in sicurezza dopo The Look of Silence e The Act of Killing. Ho cominciato a fare ricerche sugli oligarchi in situazioni analoghe altrove. E ho trovato qualcuno che stava comprando un bunker, e questo ha ispirato indirettamente The End, chiarisce il regista. Mentre ero in questo viaggio e negli anni in cui ho lavorato in Indonesia, sapevo sempre che un segno di corruzione — e un segno di un paese corrotto in generale — erano gli orologi delle persone che costavano più delle loro auto. Questo è come capivi che i funzionari governativi erano corrotti.
Anche il tempo è un protagonista silenzioso, il vero antagonista, il concetto che accompagna anche il titolo, la fine di questa famiglia, del mondo, la crisi ecologica il cambiamento climatico, cercando di soffermarsi sulla necessità di prendere coscienza prima che sia troppo tardi.
Il regista parla di falsa speranza del musical: un film sulla delusione, sulla negazione, sull’autoinganno. Una forma di disperazione che si veste con gli abiti dell’illusione, una disperazione travestita da speranza, quella del domani che sarà migliore di oggi e tutto si risolverà per il meglio.
Oppenheimer costruisce un’opera in cui i personaggi cantano quando la verità ha fatto sì che le loro illusioni si sgretolano e si cominciano a cercare nuove melodie, nuovi motivi per convincersi che tutto andrà bene.
A suo dire i personaggi sono vulnerabili e cercano disperatamente pezzi di detriti galleggianti dopo il naufragio delle loro illusioni, che occorre ricostruire.
Quindi la necessità di costruire false speranze prende il posto della necessita di capire invece come affrontare il presente e prevenire quello che accadrà se non si agisce.
Penso che la frizione tra le storie che raccontiamo grazie alla nostra capacità unicamente umana di modellare il mondo nel linguaggio e il mistero inspiegabile decade. Tutti questi sostantivi come il caos, l'orrore e la bellezza falliscono, perché ciò che sto descrivendo è al di là del linguaggio. In qualche modo, la nullità/totalità dell'universo che diventa consapevole di sé e la frizione tra queste due cose è il luogo dell'essere. Suona terribilmente filosofico, ma fare un film è troppo difficile, troppo laborioso, troppo esteso, troppo dispendioso di tempo per valerne la pena, a meno che tu non stia cercando di sentire e comprendere veramente qual è la natura dell'essere. Penso che tutti questi film, The Act of Silence, The Look of Silence e The End, siano meditazioni sul racconto. È il modo in cui raccontiamo storie per fare del mondo qualcosa con cui possiamo vivere più facilmente. Ma la conseguenza non voluta di questo è che finiamo per mentire su di esso, e le bugie hanno terribili conseguenze, che ci portano a insistere su quelle bugie in un ciclo vizioso discendente, chiarisce Oppenheimer.
Quindi la caverna/miniera/bunker/famiglia è quella in cui rifugiarsi se non si impara a interrompere la saga della falsa speranza che nega e nasconde invece di affrontare: una caverna/bunker fisica e mentale che nasconde la realtà dietro le ombre posticce della rimozione.
Joshua Oppenheimer ci consegna un’operazione incomparabile: “loro siamo noi, sostiene, si può fuggire alla giustizia ma non alla punizione”: fa satira su una ricca famiglia costruendo il vero antagonista, il concetto che accompagna anche il titolo, la fine di questa famiglia, del mondo, la crisi ecologica il cambiamento climatico, cercando di soffermarsi sulla necessità di prendere coscienza prima che sia troppo tardi.
Una monumentale rappresentazione allegorica dell’umanità che mente a sé stessa con un misero, imprudente, falso, ottuso ottimismo.
Noi corriamo spensierati verso il precipizio dopo esserci messi dinanzi agli occhi qualcosa che ci impedisce di vederlo.
14-Jan-2025 di Beatrice
Joshua Oppenheimer movies
THE LOOK OF SILENCE
2014