
Recensione di Beatrice On 05-Oct-2023
Signe è fidanzata con un artista che ama rubare: finge infatti di festeggiare il compleanno della sua amata per portarsi via una bottiglia di vino da 2300 dollari.
Signe ritiene che solo i narcisisti hanno successo, infatti lei fa la cameriera.
E’ tuttavia stanca di passare inosservata, di parlare mentre gli altri non ascoltano e di non essere mai “ messa a fuoco”.
Dopo che, nell’indifferenza altrui, soccorre una donna ferita a morte da un cane, e torna a casa imbrattata di sangue, qualcosa in lei si trasforma.
Con una ricerca online individua un farmaco, il Lidexol, un potente sedativo, che provoca evidenti effetti sulla pelle, si reca dall’amico Stian, spacciatore, disturbato psichico, con madre al seguito, al quale chiede di trovarle il farmaco prodotto in Russia
Inizia così il suo percorso di dipendenza e di intossicazione che tormenta la pelle del corpo e del volto rendendolo mostruoso.
La sua mitomania, si era già manifestata attraverso la compulsione irrefrenabile a dire bugie per rendersi più interessante agli occhi degli altri.
La realtà e la fantasia si confondono continuamente anche a causa del farmaco sedativo, tanto da evidenziare in alcuni momenti tutto quello che non riesce a dire, ossia la verità e quello che lei pensa gli altri pensino di lei, facendola trovare spesso in situazioni di grande imbarazzo.
Tra Thomas, il suo compagno e lei si alimenta continuamente un agone che corrode la loro virale necessità di apparire e di esserci.
Il godimento di Signe si accende nel momento in cui lui usa parole di cura nei suoi confronti o nel momento in cui lei immagina di fare una lista per il suo funerale dove non saranno graditi il padre e l’amica che non è mai andata a trovarla in ospedale; un funerale dove per accedere c’è bisogno di un timbro come per far parte di un evento mondano.
Durante il gruppo di autoaiuto le viene detto che è fortunata perché ha una malattia visibile mentre gli altri sono afflitti da altro genere di disturbi invisibili ad occhi disattenti.
Inizierà ad entrare nel mercato della pubblicità attraverso una agenzia inclusiva, con segretaria non vedente, per la quale farà la modella: le riprese in un museo, dove indossa il marchio “regardless” circondata da statue gigantesche, da registi e assistenti della moda saranno alquanto ciniche e imbarazzanti.
Il fidanzato, davanti alla sua visibilità non esiterà a chiederle di essere la musa ispiratrice della sua futura mostra.
Tra opacità umane, orrori del sistema, ricerca della visibilità e pseudopatologie contemporanee, alcune sequenze ricordano i momenti di imbarazzo rappresentati nei film di Ruben Ostlund, alcuni temi indicano la ricerca ossessiva dell’attenzione degli altri, della compassione e della cura dell’indimenticabile Miserere di Babis Makridis.
Ma la versione di Kristoffer Borgli vive di una sorprendente, paradossale, assurda e tuttavia innegabile, attuale e concreta presa visione della nostra realtà fattuale.
Quanto si è vittime o artefici del proprio disturbo è la grande questione che sollecita questa pellicola; d’altronde le patologie sono in continua evoluzione e quelle psichiche sono il segno dei tempi: il mutamento dei fattori sociali, culturali, economici, contribuiscono al cambiamento dei disturbi psichici.
Il problema del Dasein contemporaneo, non è più heideggerianamente l’esserci dell’ente privilegiato, che si mette in questione ponendosi il problema dell’essere, ma è divenuto solo qualcosa di gettato nel mondo e sottoposto alle relative limitazioni, obblighi, ossessioni, servitù, viralità, apparenze: un ente non più in grado di trascendersi con un atto di libertà, senza la possibilità di progettare atteggiamenti e azioni possibili.
Un ente che subisce e agisce subendo, condizionato dalla claustrofobia virale dell’apparire per sentirsi esistente e presente.
L’infezione horror del virus della visibilità ossessivo-compulsiva non sarà facilmente debellabile con un vaccino: le challenges, la ricerca dei like, di followers e di visualizzazioni ne sono l’ineludibile dimostrazione virale.
La pelle di Signe rappresenta la malattia psicosomatica di questo decennio: piaghe, cicatrici, infiammazioni, deformazioni, mostruosità determinate da un farmaco sedativo ingurgitato come fossero caramelle, solo per sentirsi viva, vista, rappresentata, riconosciuta, esistente, vivente, seppur assente e incosciente.
Un procedimento autolesionista, senza alcun ricorso all’istinto di conservazione, quell’ impulso indirizzato alla tutela di se stessi e della propria integrità ormai in via d’estinzione.
L’evoluzione della specie umana si sta orientando verso l’impulso più forte, quell’interno tiranno al quale si assoggetta non solo la ragione ma anche la nostra coscienza, direbbe Nietzsche.
Un film complesso e diretto, cinico e beffardo, drammaticamente provocatorio e caustico: un crudele sguardo artistico, di carne e sangue, dove il corpo patisce quello che la paranoia del sistema e della tecnica stanno facendo di noi.
05-Oct-2023 di Beatrice