
Recensione di Beatrice On 10-Sep-2023
Mettere in relazione un individuo col mondo intero: questo è il significato del cinema.
In quello che rimane di un vecchio ristorante, in una citta distrutta dalla guerra e dal fuoco Shuri si prostituisce. Lei bravissima cuoca non ha più clienti e vive nell’alienazione più totale: figlio e marito sono morti a causa del conflitto e si legge solo disperazione nei suoi occhi.
Arriva un soldato reduce dalle Filippine, apparentemente timido, la paga per passare una notte con lei. La cosa si ripete il giorno successivo e i giorni dopo ancora ma l’uomo non ha più soldi e promette di pagare. Intanto nella casa si reca spesso un bambino che Shuri chiama “cane randagio” perché vive di furti di cibo nel vicino mercato nero e il soldato ex maestro elementare gli porge un quaderno di algebra.
Si costruisce così giorno per giorno una famiglia bislacca, dove ciascuno cerca un nucleo nel quale continuare a credere e per il quale continuare a vivere: la donna ormai sola e disperata, il soldato, evidentemente traumatizzato dalla guerra, con accesi scatti di ira e il bambino che cerca di sopravvivere come può.
Ma quello squarcio illusorio che si è venuto a creare, sempre precario e disturbato, viene ulteriormente frammentato dalla presenza di una pistola che il bambino deve consegnare vivendo così un’esperienza ulteriormente traumatica: quando tornerà anche quel brandello di vita si è smembrato. La donna si aggira solitaria e disperata nella sua casa-ristorante-bordello, il soldato vive insieme ad altre vittime della guerra in un tunnel sotterraneo, di emarginazione, abbandono, e follia. Ma il bambino lo va a cercare, come cerca di ritornare da quella donna che per qualche istante lo ha fatto sentire riconosciuto: per questo cerca lavoro, si presta a qualunque occupazione e violenza pur di provare a ricostruire quel segmento di vita e di calore.
La scena finale sarà un ulteriore caduta negli inferi della sopravvivenza di chi ha già toccato la miseria della disperazione e sta cercando di vivere una condizione spettrale, aggirandosi tra la violenza, le rovine, la crudeltà e la follia umana.
Lo sguardo del bambino traccia tutta la trama del film, lacerando e attirando l’inquietudine che pervade inarrestabile la disamina della rappresentazione.
Non è una esperienza comune quella che Tsukamoto è riuscito costruire: l’orrore della guerra si può rappresentare in tanti modi e il regista giapponese si occupa da tempo di questo tema. Qui lo sguardo è intimo eppure universale, terribile e illusorio, onirico e raggelante. La donna, il bambino e il soldato sono degli spettri che vivono una realtà definitiva, dove ciascuno cerca un sollievo dal dolore e dalla solitudine seppur minimo, parziale, vano.
Una lezione indelebile di cinema quella di Tsukamoto che parte dal tema del corpo e delle sue declinazioni, della guerra e della morte, delle corruzioni, mutazioni, psicosi che ne derivano, sempre violenta e disturbante tuttavia poetica e straziante: uno sguardo che conduce dentro quella intimità e lascia esanime e folgorato per interminabili istanti.
La pelle umana delle cose, il derma della realtà, ecco con che cosa gioca anzitutto il cinema.
10-Sep-2023 di Beatrice