Sconfort Zone

Maccio Capatonda Sconfort Zone Comedy • 2025 • 3 hours

Stanco del blocco creativo che lo tormenta da mesi e minaccia la realizzazione della sua serie TV, Maccio Capatonda si affida alle cure dell'eccentrico dottor Braggadocio. La sua terapia d’urto lo obbliga ad affrontare una sfida settimanale, costringendolo a rivivere le sue più grandi paure e a uscire dalla sua zona di comfort.
Recensito da Beatrice 23. March 2025
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Ci vuole molta sofferenza per diventare uno scherzo.

(Friedrich Nietzsche) 

Sconfort Zone è una distorsione grottesca dell’esistenza, una vera e propria riflessione esistenziale che si maschera da commedia dell’assurdo.  Maccio Capatonda, o meglio, il personaggio di Marcello Macchia, è un uomo in preda al caos dell’anima, intrappolato in una crisi creativa così profonda da rasentare l’autodistruzione. La sua vita è diventata una replica costante di gag risapute, di battute stantie, di personaggi che lui stesso ha creato ma che ora sembrano aver preso il sopravvento su di lui. È in questo scenario che lo spettatore si imbatte nella sua discesa nell’inferno della Sconfort Zone, uno spazio in cui l’umorismo non è mai solo un gioco, ma una stridente riflessione sulla miseria dell’essere. Quando l’ispirazione svanisce, quando il vuoto creativo diventa un abisso, ecco che arriva la cura: la sconfort therapy.


La serie è, infatti, un atto di distruzione: distruzione della comicità che lo ha reso famoso, distruzione dei suoi personaggi che sembrano ormai maschere che urlano per essere liberate dalla loro esistenza fittizia. Ma come ogni grande distruzione, questa porta con sé una nuova possibilità di nascita, o almeno, così sembra suggerirci il grottesco dottor Braggadocio, l’ennesimo personaggio assurdo che segna il punto di rottura della narrazione, una sorta di guru dell’autodistruzione.  “Il disagio è il tuo motore”, dice lo psicologo, e in questo paradosso si cela tutta l’ironia della situazione: Maccio, un comico che ha vissuto grazie alla risata degli altri, ora deve trovare la sua ispirazione nell’esperienza più angosciante e surreale possibile. Il dolore, l’umiliazione, la servitù volontaria come chiavi per la sua rinascita artistica. Ma non basta un semplice percorso di consapevolezza: Maccio deve vivere settimane intere come un malato terminale, subire la manipolazione di un infermiere che si fa gioco di lui, essere costretto a tradire la sua compagna, a farsi amici dei fascisti e frequentarli per una settimana, a lanciarsi in prove di assurda virilità che lo ridicolizzano e lo alienano ancor di più dalla sua realtà.


Eppure, in ogni passo verso il fondo, Sconfort Zone solleva domande inquietanti. Se tutto ciò che è più grottesco e assurdo nel nostro comportamento è proprio ciò che ci definisce, cosa accade quando ci liberiamo delle nostre maschere? In un mondo dove la realtà è un circo di ipocrisie, di segreti, di volontari atti di autolesionismo (come il tradimento o la violenza), Capatonda ci pone una domanda: siamo davvero disposti a distruggere le nostre certezze per rimanere fedeli a qualcosa di più autentico, o preferiamo sprofondare nella mediocrità della nostra zona di comfort?


Il paradosso surreale di Sconfort Zone sta nel fatto che, mentre sembra condurre il protagonista alla rovina, lo fa con l’ironia di un clown che, dietro il trucco, porta in scena la tragedia dell’essere. L’idea che per rinascere dobbiamo “uccidere” simbolicamente il nostro vecchio sé è una proposta filosofica tanto radicale quanto estrema. La terapia del dolore, della violenza, del tradimento e del fallimento diventa una parodia della ricerca dell’autenticità, in cui Maccio non può più restare il comico che siamo abituati a vedere, ma è costretto a diventare qualcosa che non ha nome, un vuoto in cui risuona solo l’eco delle sue battute passate, ormai impossibili da replicare.


E come in un film di Buñuel scritto da un cabarettista psicotico, la realtà diventa un meccanismo inceppato, una macchina che gira a vuoto e risputa fuori sempre lo stesso enigma: è possibile reinventarsi, o siamo condannati a recitare la stessa parte per sempre?


In questo calderone di esperimenti esistenziali, Sconfort Zone diventa una satira amara della condizione umana. Così come i suoi personaggi sono ingabbiati nelle loro esistenze comiche, Maccio, alla fine, si trova ingabbiato in un mondo che non può più cambiare se non attraverso “l’esistenza di una storia che non esiste”.  La sua realtà, come quella di tutti noi, si scontra con il paradosso dell'essere, dove la libertà sembra esserci solo quando rinunciamo a tutto ciò che pensavamo di essere.

Questa è la grande truffa del percorso di Maccio: ogni volta che sembra vicino alla catarsi, qualcosa lo riporta indietro, lo incastra in un altro livello di grottesco, lo trasforma in un burattino del suo stesso esperimento. L'umiliazione diventa arte, il fallimento una performance, il dolore un meme. È la parabola del comico moderno, che non può più ridere senza essere anche vittima della risata. Un pagliaccio che ride di sé stesso, sapendo benissimo che il pubblico, in fondo, ride di lui per disperazione.


Eppure, nonostante l'assurdità di ogni sua mossa, Sconfort Zone è anche un inno alla banalità dell’esistenza.


La serie, tra violenza simbolica e ironia delirante, ci obbliga a guardare la nostra vita attraverso l’obiettivo deformante della comicità, per rendersi conto che forse, in fondo, non c’è niente di più reale del fallimento stesso. Maccio diventa, suo malgrado, il nostro specchio: una figura che lotta contro il suo stesso riflesso, ma che, paradossalmente, trova la sua verità proprio nel momento in cui si libera della sua identità pubblica.


Quindi, tra battute stanche e atti di pura follia, Sconfort Zone non ci regala un messaggio edificante, ma una riflessione crudele sulla finitezza dell’essere. Che sia la fine della comicità o l’inizio di una nuova era di consapevolezza, ciò che resta è il corpo nudo e brutale di Maccio, costretto ad affrontare il suo io più oscuro, come ogni uomo dovrebbe fare prima di poter veramente ridere della propria condizione.


La vita è una tragedia in primo piano, ma una commedia in campo lungo.

(Charlie Chaplin) 

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