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Padre Pio

Padre Pio

Abel Ferrara

2022 • 1h 44m

Recensito da Beatrice 06. July 2023

Prendi posizione. La neutralità favorisce sempre l’oppressore, non la vittima. Il silenzio incoraggia sempre il torturatore, non il torturato.

San Giovanni Rotondo, fine della Grande Guerra; le donne attendono i loro uomini, alcuni tornano malati, mutilati, altri non torneranno mai.

La povertà costringe a lavorare in condizioni di schiavitù mentre i proprietari terrieri detengono il potere economico e politico.

Parallelamente a questa realtà, in un austero convento di cappuccini, Padre Pio inizia il suo ministero, con il famoso piglio austero, conflittuale e misterioso. Assorbito completamente da visioni mistiche e diaboliche si accompagna a confronti con i propri turbamenti, sensi di colpa, ossessioni, fissazioni, deliri, inquietudini tra il disumano e il divino.

La campagna elettorale che precede le prime elezioni libere in Italia, promossa da i pochi che hanno avuto la fortuna di misurarsi con l’alfabetizzazione cavalca le condizioni di estrema miseria dei braccianti agricoli, delle loro condizioni di lavoro e di vita.

Sulle pareti un ritratto di Marx, si parla di rivoluzione citando Lenin e Trotsky mentre i possidenti del paese si esercitano alla controffensiva facendo benedire le armi dagli ecclesiastici conniventi.

Finita la prima guerra mondiale la guerra sociale, economica e politica è appena iniziata e Abel Ferrara rappresenta un evento pressoché sconosciuto: il massacro del 14 ottobre 1920 a San Giovanni Rotondo, la strage più violenta del biennio rosso in Italia, in cui rimasero ferite 60 persone e morirono tredici socialisti e un carabiniere.

Il regista, che non riconosce a Padre Pio, troppo impegnato ad occuparsi della sua “anima”, alcuna reale partecipazione al blocco o fascio d’ordine degli Arditi di Cristo, seguaci del frate, riconosce tuttavia la responsabilità della borghesia della Capitanata e della forza pubblica che si mosse con l’intento di reprimere il movimento socialista nelle aree in cui era maggiormente radicato e sottolinea la necessità di far conoscere a fondo le radici del fascismo, insieme al ricordo di quei pionieri della democrazia massacrati da un potere reazionario e dispotico.

Il binario assolutamente parallelo della conduzione registica di Abel Ferrara, tra la vita del paese e quella monastica del frate , mai intersecantisi, se non per questioni strettamente geografico/temporali, indica con decisione la necessità di presentare le due storie esattamente come due rette che per dirsi parallele devono appartenere a uno stesso piano e non devono avere alcun punto in comune.

L’intento è quello di mostrare un mondo esterno, quello del paese, disperato, tragico e conflittuale e un mondo interno, quello del frate, narcisistico, schizofrenico e tormentato.

Dalla ferocia della realtà alla psicopatologia della “verità”.

Il bambino viziato di cui lo accusa il suo alter ego conscio di aver voluto codardamente evitare la guerra attraverso licenze multiple; la salute cagionevole, le violente crisi fisiche e spirituali, i deliri, gli episodi di ipertermia e di bilocazione, nonché l’aggressione dei demoni che lasciano segni sulla sua martoriata carne, il tormento e la battaglia quotidiana con il maligno, disegnano la vita del Pio cappuccino, conosciuto e rappresentato abilmente da Abel Ferrara, mentre fuori dal convento la guerra sociale si fa violenta e spietata.

Ma quanto la non responsabilità diretta al massacro, come in questo caso, sia effettivamente un alternativo j’accuse nei confronti di un uomo ritenuto da molti feroce, violento e tormentato e concentrato solo su se stesso?

D’altronde la fede cos’è se non “paradosso e scandalo” come insegna Kierkegaard? E la vita di Pio si è stata contraddistinta per azioni e eventi incredibili e sconcertanti, scabrosi e esagerati.

Per il frate il peccatore è chi ha dubbi e per questo va cacciato, per il potere il nemico è chi mette in discussione lo status quo e per questo va condannato.

La schizofrenia del potere politico/economico/ecclesiastico è l’imposizione della scissione tra chi presume di possedere l’ultima parola e chi pretenderebbe di metterla in discussione.

La miscredente maestria del regista concede il beneficio del dubbio alla responsabilità diretta sui fatti ma non concede alcuna assoluzione all’uomo di pulpito di altare e di confessione, disegnandolo paranoicamente e egoisticamente riverso su sé stesso, condannato dal proprio patologico narcisismo.

Esserci significa esserci coi fatti. Le parole, spesso, sono il modo più certo per essere altrove.

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