NIGHTBITCH

Marielle Heller

1h 38m  •  2024

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Recensione di Beatrice On 30-Nov-2024

Essere madre è la gioia più grande del mondo, ma porta anche problemi, sfinimento, dolore. Niente al mondo ti potrà mai rendere più felice o più triste, più orgogliosa o più stanca. Perché nulla è complicato quanto aiutare una persona a sviluppare la propria individualità, mentre stai ancora lottando per conservare la tua.

Nightbitch si erge come un viaggio simbolico nel profondo dell’identità femminile, una discesa nella zona liminale in cui il corpo e lo spirito della donna si trovano a negoziare la tensione tra desiderio e imposizione, tra libertà e obbligo. Adattando il romanzo di Rachel Yoder, la regista mette in scena un racconto che non è solo una narrazione, ma un manifesto esistenziale sulla maternità e sull’essere donna in un mondo che fatica a riconoscere la pluralità delle loro identità.

La protagonista, un'artista trasformata in casalinga suo malgrado, incarna l’alienazione del sé creativo schiacciato dal peso di un ruolo che, pur amando, sente estraneo. È la storia di una donna che, dalle esposizioni al MoMa, dalla creazione artistica, si ritrova confinata in un quotidiano fatto di fatica e routine, passando pomeriggi con le altre mamme, cucinando, facendo la spesa e tentando di dormire almeno la notte. Il marito è spesso lontano per lavoro e sebbene il suo temperamento sia sempre effervescente, la solitudine regna come unica compagna. È qui che il corpo, primo veicolo del femminile, comincia a ribellarsi: canini affilati, olfatto acuto, e persino otto mammelle si manifestano non come deviazioni grottesche, ma come una riconquista del primordiale. È la riemersione di un “animale interiore” che la società aveva cercato di sopprimere.

La trasformazione in cane, che la protagonista vive di notte, non è un’estraneità, ma una liberazione. Correre per le strade di periferia diventa un atto politico, una fuga dalla gabbia dorata di un’idea di maternità che imprigiona. Perché “madre” non è solo un’identità; è una delle molteplici possibilità dell’essere donna. Un’identità che la società patriarcale ha imposto come totalizzante, riducendo l’infinita complessità dell’essere femminile a un’idea monolitica e sacrale.

Nightbitch, attraverso il realismo magico, rifiuta questa narrazione lineare. Il film non esalta la maternità come mito intoccabile, ma ne svela la brutalità e la bellezza, il sacrificio e il risentimento, la luce e l’ombra. In questa visione, la maternità non è solo creazione, ma anche distruzione e rinascita: un processo trasformativo che obbliga a confrontarsi con le parti più oscure di sé.

La figura del marito, qui, non è un villain, ma un simbolo della complicità passiva di una cultura che lascia le donne sole nel carico emotivo e pratico della genitorialità. La sua presa di coscienza, seppur tardiva, in quanto “bastava chiedere”, perché il maschile non intuisce il non detto, il non direttamente esplicitato, rappresenta un invito a una genitorialità condivisa e più equa, in cui i ruoli non siano semplicemente assegnati, ma continuamente negoziati.

Ciò che Nightbitch riesce a fare, con un’ironia che non riduce mai la profondità del discorso, è spezzare il tabù delle emozioni contrastanti che molte donne provano. Perché è possibile amare profondamente un figlio e, al contempo, desiderare ardentemente di essere altro. Essere madri, ma anche amanti, lavoratrici, artiste, animali selvatici che corrono nella notte.

Questo film non offre soluzioni o risposte; invita, invece, a un abbraccio radicale del dubbio e della complessità. È un atto femminista che reclama il diritto delle donne a essere tutto, senza che una scelta escluda l’altra. È un inno alla molteplicità dell’essere, alla gioia feroce di esistere come corpo e spirito libero.

Rispetto al modello di madre idealizzata, forse le donne stanno diventando pessime madri. Ma per la prima volta nella storia stanno diventando autentiche e reali, perché prima di essere madri vogliono essere persone.

30-Nov-2024 di Beatrice