
Recensione di Beatrice On 20-Aug-2023
L’Hogar è un luogo in cui le mamme che si trovano in situazione di emarginazione e abbandono possono contare nella protezione che normalmente caratterizzano una casa.
Le ragazzine madri -spesso bambine- vengono accolte nell’Hogar nel momento più delicato, ossia quello immediatamente precedente e successivo al parto, e vengono sostenute dal punto di vista materiale.
Queste adolescenti vivono una condizione di profonda fragilità: purtroppo, nella realtà della baraccopoli, le villas miseria, i casi di abbandono familiare da parte degli uomini sono frequentissimi- prodotto di una mentalità diffusa di feroce maschilismo- e le ragazze si ritrovano in stato di gravidanza senza poter contare su nessuno. L’assoluta mancanza di affetto a cui sono state da sempre abituate le porta ad una scarsissima autostima di sé, come persone e come madri, e rende molto contrastato il rapporto con il figlio.
Secondo recenti statistiche, ancora oggi nella zona di Posadas -storicamente una delle più povere regioni del paese- circa il 21% dei neonati ha una madre di età compresa fra i 10 e i 19 anni e purtroppo il fenomeno è in crescita. Attualmente esistono in zona 1.625 mamme tra i 15 e i 19 anni che hanno già due figli. Inoltre, in questi ultimi anni le situazioni risultano sempre più complicate: non esistono alternative di accoglienza in zona, come nel caso delle minorenni vittime della “tratta”, ossia di sequestri per prostituzione e delle vittime di violenza domestica in cerca di rifugio.
(https://www.jardin.it/dall-argentina/il-significato-di-hogar/)
Qui siamo in un centro religioso italo argentino, un hogar gestito da suore per ragazze madri. Suor Paola è appena arrivata a Buenos Aires dall’Italia e deve prendere i voti perpetui. Lu e Fati sono due diciassettenni, completamente diverse, ma entrambi con lo stesso destino: essere ragazze madri.
Il contrasto tra le suore e le ragazze si evince immediatamente: le prime con il voto di castità e una vita prestabilita all’insegna delle regole, le seconde, ciascuna con trascorsi diversi, alcune vittime dell’ambiente e della violenza maschile, altre anche della sprovveduta conflittualità con il proprio corpo e la propria sessualità.
Così racconta la sua esperienza la regista:
Per tanto tempo ho lavorato a Buenos Aires in un istituto religioso italiano per madri adolescenti. Non mi sono fermata sulla soglia a spiare dai corridoi, sono entrata nelle loro stanze, le ho ascoltate e osservate, ho condiviso le loro inquietudini, ci siamo conosciute. Mi è stato possibile, e forse necessario, perché in MATERNAL c’è tanto di me, del mio presente e del mio passato: l’odore d’incenso della bambina cattolica, le amicizie e gli amori dell’adolescente assetata di passioni, il senso di maternità della donna. Sono diventata per loro una figura familiare, empatica e insieme invisibile. Da questa posizione interna, personale ed emotiva ho iniziato a scrivere un film sulla loro singolare storia di giovani donne. Quando mi sono avvicinata di più al mondo delle religiose che le seguono, ho sentito che stavo vivendo un’esperienza complessa e unica: la maternità adolescente non era l’unico paradosso con cui mi stavo confrontando. Una sedicenne incinta impressiona lo sguardo. Un viso di bambina che allatta porta con sé una contraddizione commovente. Ciò nonostante, è stata l’immagine epifanica di una giovane suora che cullava uno dei loro figli che ha messo in moto il film: in quel momento ho realizzato tutta la potenza del cortocircuito emotivo di un mondo femminile chiuso, paradossale e affascinante in cui la maternità precoce delle ragazze convive con quella assente delle religiose. La scrittura ha seguito il desiderio di evocare la complessità e le contraddizioni di questo universo singolare.
Più che le madri, qui sono i figli che le descrivono:
Nina è la figlia di Lu, una ragazza/madre insofferente alla sua condizione, in cerca di fuggire con il fidanzato che la picchia ma che le dice “mi fai impazzire” e lei ci “casca” ogni volta, rimanendo in attesa eterna dei suoi messaggi; Nina cerca sempre l’amore di una madre che è altrove e lo troverà in Suor Paola che scoprirà la sua necessità di amare.
Anche Fati ha un bambino e ne aspetta un altro, ma non riesce ad amare il primo, sempre in attesa di un gesto d’affetto, affamato di amore e di attenzioni; ma Fati nasconde un segreto che Lu le urlerà senza pietà.
La foto di quella madre che è attaccata sulla testa del letto, la madre del patrigno abusante dal quale attende anche il secondo figlio.
Realtà sconvolgenti queste, di traumi precoci, di maternità involontarie e incoscienti, immature e violente.
E le suore che concedono e regolano: concedono feste da ballo dove si danza come le “puttane”, dicono le ragazze stesse, mentre le suore da fuori regolano vegliano e vigilano dall’alto e dal basso della loro condizione.
Solo dal 30 dicembre 2020 l’Argentina ha legalizzato l’aborto e il film/documento è stato girato poco prima.
Ma prendersi cura dei propri figli, laddove si è in grado, non vuol dire amare; il senso materno, che non è istinto, può nascere anche se non si è madri biologiche, vedi Suor Paola, e essere non pervenuto anche se lo si è.
Intanto le suore esercitano la loro missione: insegnare cos’è la “sacra famiglia” composta da Maria Giuseppe e il Bambino Gesù che i bambini devono baciare e poi procedere con il disegno della propria famiglia: una lezione che definire crudele, sembra un esercizio di stile linguistico.
Anche la parabola della pecorella smarrita sembra non funzionare quando Lu torna dopo essere scappata per giorni con il fidanzato: Nina rischierà di essere affidata e nel frattempo madre e figlia saranno allontanate dall’hogar.
Il sorprendente film rivela il talento documentarista della Delpero: un ritratto costruito dall’esperienza di anni vissuti in queste realtà. Dialoghi, volti, situazioni, narrazioni estremamente credibili, un neorealismo di ritorno quello della regista assolutamente costruito sui fatti.
Lo smalto, i trucchi, i vestiti rimediati, donati, i lividi, i traumi, la violenza, l’impossibilità di amare, la scoperta dell’amore: oggetti, sentimenti, difficoltà di vite segnate per sempre.
Di questo e di molto altro tratta questo documento: Nina ascolta quello che le sta per accadere e scappa tra le braccia di Suor Paola ormai senza velo, strappatole dalla Maddalena della situazione che le restituisce una nuova s-veste, riconsegnandola ad una potenziale maternità soffocata dalla scelta estrema.
Chi è una madre, cos’è una madre e cosa significa esserlo.
Si può diventare tale solo per un incidente biologico?
Deve esserci una scelta?
Perché la responsabilità ricade sempre sulle madri in un pianeta di uomini assenti se non sotto forma/presenza di spermatozoi?
Nessuna figura maschile compare in questo film tranne un tale che arriva di corsa per strada per salire su un autobus e andare via. La metafora di una assenza; la cronaca di una contumacia annunciata quella maschile dalla accidentalità di un incontro sessuale che lascia il segno e a volte, troppo spesso la ferita in un corpo femminile fecondo suo malgrado.
Maternità accidentali e inconsapevoli, maternità abusate e violate anche dalle rispettive madri; non maternità altrettanto misteriose e tragiche su corpi che incarnano il proprio supplizio o la propria tormentata inviolabilità.
Due mondi a confronto quelli del corpo della verginità per la quale “ con Cristo non manco di nulla” a quelli del corpo della maternità per il quale con un figlio manco di tutto.
La qualità stilistica della Delpero si nota nei particolari: le attrici non professioniste e la loro potenza, i giocattoli ovunque, i poster, i ventilatori rumorosi, le stanze semiaperte, i quaderni, i colori, il disordine, gli stendipanni, lo scotch rubato per depilarsi, il deodorante negli slip, gli smalti sempre presenti come unici colori concessi, sono l’attenzione riposta su un mondo osservato con estrema lucidità.
In molte ma soptrattutto in queste condizioni narrate dal film la gravidanza smuove rabbia, paura, frustrazione.
L’amore non è esente da odio sebbene la retorica sulla maternità tenda a soffocarlo;
nella donna, infatti, molto più marcatamente che nel maschio, si dibattono due soggettività antitetiche perché una vive a spese dell’altra. Una soggettività che dice ‟io” e una soggettività che fa sentire la donna ‟depositaria della specie”. Il conflitto tra queste due soggettività è alla base dell’amore materno, ma anche dell’odio materno, perché ogni figlio, vive e si nutre del sacrificio della madre: sacrificio del suo tempo, del suo corpo, del suo spazio, del suo sonno, delle sue relazioni, del suo lavoro, della sua carriera, dei suoi affetti e anche amori, altri dall’amore per il figlio. Se poi il figlio è figlio dell’illegalità, del tradimento, della povertà, della paura, della sprovvedutezza, allora non solo il conflitto tra le due soggettività, ma anche l’impossibilità di prefigurare un futuro per il figlio scava nell’inconscio della madre quel che non vuol vedere e constatare ogni giorno: che il proprio figlio è troppo distante troppo dissimile dal proprio sogno o dal proprio desiderio. È a questo punto che l’ambivalenza amore-odio, che il mondo delle madri conosce meglio del mondo dei padri, si potenzia e chiede una soluzione che non può trovarsi se non nel riconoscimento e nell’accettazione di questa ambivalenza come cosa naturale, e non con il senso di colpa che può nascere dall’interpretarla come incompiutezza o inautenticità del proprio sentimento. Il rimedio suggerito è allora quello di ‟accudire le madri”, perché, per la forma che ha assunto la nostra società, forse, per molte donne, troppa è la metamorfosi del loro corpo, la rapina del loro tempo, l’occupazione del loro spazio fisico ed esteriore, interiore e profondo. E quando l’anima è vuota e nessuna carezza rassicura il sentimento, lo consolida e lo fortifica, il terribile è alle porte, non tanto come atto inconsulto, ma come svuotamento di quelle risorse che fanno argine all’amore separandolo dall’odio, allo sguardo sereno che tiene lontano il sentimento truce. La natura contamina questi estremi. E la madre, che genera e cresce nell’isolamento e nella solitudine, conosce quanto è fragile il limite. Non sa più cosa accade dentro di lei, e le sue azioni si compiono senza di lei. Per questo, natura vuole che a generare si sia in due, non solo al momento del concepimento e del parto, ma soprattutto nel momento dell’accudimento e della cura. Dove a essere accudito, prima del figlio che segue la sua cadenza biologica, è la madre, che ha messo a disposizione prima il suo corpo, poi il suo tempo, poi il suo spazio esteriore e interiore, infine l’ambivalenza delle sue emozioni che camminano sempre sfiorando quel confine sottile che separa e a un tempo congiunge la vita e la morte, perché così vuole la natura nel suo aspetto materno e crudele, che le madri avvertono quando affondano in quella luce nera e così poco rassicurante che fa la sua comparsa nell’abisso della solitudine.
“Maternal” in novantuno minuti riesce a insediare e invadere l’abisso della nostra interiorità difronte a questo tema: come un eccellente e onesto film documento non può considerare l’ipotesi di un finale tanto meno di un misero happy end. Presenta, racconta, ritrae, documenta e fa rigorosamente epochè di qualunque giudizio e soluzione. GRAZIE!
20-Aug-2023 di Beatrice
Maura Delpero movies
VERMIGLIO
2024