All'interno di un sistema che nega l'esistenza di diritti umani fondamentali, la paura tende a essere all'ordine del giorno.
(Aung San Suu Kyi)
Il Myanmar ha una lunga storia di colpi di stato militari, nel 1962, nel 1988 e, più recentemente, nel 2021.
Negli ultimi tre anni, l’esercito ha sistematicamente bruciato villaggi, ucciso e arrestato oppositori in tutto il Paese. I giovani sono costretti a trasferirsi nelle città per cercare rifugio e lavorare in una delle numerose fabbriche tessili.
Il film è ispirato agli scioperi delle donne avvenuti nel 2012.
Oggi le donne stanno ancora lottando per i loro diritti in Birmania. Alcune di loro si sono unite ai gruppi di ribelli contro la giunta militare.
Mi Thet ha diciott’anni e viene dalla campagna. Come migliaia di altre giovani donne, ha lasciato la terra per entrare in una fabbrica tessile a Yangon. Lavoro precario, salari irregolari, vessazioni quotidiane. La proprietà è cinese, assente. Il controllo, invece, è affidato a supervisori locali che usano la minaccia come metodo di comando. La vita in fabbrica non è solo sfruttamento economico: è umiliazione, silenzio forzato, paura.
Mi Thet divide un alloggio sovraffollato con altre due lavoratrici. Il cibo scarseggia, il riposo è un lusso. Da due mesi, le operaie non ricevono il salario. È a questo punto che Nyein Nyein prende parola. È lei a proporre lo sciopero. Alcune esitano, altre si tirano indietro. Ma il gesto rompe una passività che il regime – economico e militare – conta di mantenere.
Mi Thet esita, poi si unisce. Le lavoratrici iniziano a picchettare la fabbrica. Chiedono ciò che spetta loro: salario, rispetto, ascolto. Ma il potere, in Myanmar, non ascolta. Reprime. Lo fa nelle fabbriche come nelle strade, con lo stesso meccanismo che ha reso possibile il colpo di stato del 2021. Le stesse mani invisibili che finanziano l’industria tessile alimentano anche la giunta. Le lavoratrici sono solo pedine in un’economia di guerra e sfruttamento.
Mi Thet conosce U Tun, un uomo marginale, disilluso, sopravvissuto alle rivolte del 1988. È lui a farle scoprire che i diritti non sono concessi: si prendono. Con consapevolezza, con lotta. Da quel momento, Mi Thet torna allo sciopero con nuova determinazione. Le lavoratrici rifiutano compromessi. Vogliono parlare direttamente con il padrone.
L’auto del proprietario si avvicina. Le ragazze aspettano. Poco dopo, giacciono a terra. Ferite, forse morte. In silenzio. Un’altra esecuzione non registrata.
MA – Cry of Silence racconta senza abbellimenti ciò che accade ogni giorno in Myanmar: un sistema di sfruttamento transnazionale che schiaccia i corpi delle donne, che silenzia la protesta con la violenza, che nasconde i suoi responsabili dietro sigle societarie e accordi internazionali.
Molte delle attrici del film sono ex operaie. Questo non è un film sulla realtà: è la realtà stessa che si mette in scena. Non c’è distanza, non c’è allegoria. C’è solo un’urgenza politica: rendere visibile ciò che il potere vuole tenere nascosto.
Il regista mostra i volti delle oppresse, ma non quelli degli oppressori. Perché nel Myanmar del dopo-golpe, il potere si maschera, si dissolve, si protegge dietro le logiche di mercato globale. E mentre il mondo chiude gli occhi, le donne combattono, anche da sole, anche senza futuro. Ma combattono.
La schiavitù umana ha toccato il punto culminante alla nostra epoca sotto forma di lavoro liberamente salariato.
(George Bernard Shaw)