Ciò che viene espulso dalla norma torna come spettrale: il queer è il fantasma della società eteronormata.
(José Esteban Muñoz)
Con Lucky Apartment, la regista non si limita a raccontare una crisi relazionale: costruisce un dispositivo filmico che interroga la materia stessa dell’esistenza queer in una società che nega sistematicamente riconoscimento, memoria e spazio. Il film si muove sul crinale tra il visibile e l’inudibile, tra ciò che si manifesta in superficie e ciò che marcisce nelle fondamenta del vivere quotidiano.
La vicenda ruota attorno a Sun-woo e Hee-seo, coppia lesbica trentenne, la cui vita comune viene erosa dall’apparente banale esperienza di un cattivo odore proveniente dall’appartamento sottostante. Ma ciò che si presenta come un semplice disturbo olfattivo si rivela presto come un’epifania della precarietà queer: l’odore è il reale che ritorna, è l’irruzione di ciò che la normalità borghese tenta di reprimere con profumi, silenzi e regole condominiali.
La decomposizione di un corpo invisibile – quello di una donna anziana, anch’essa presumibilmente queer, morta senza nessuno che la reclamasse – diventa il perno attorno a cui ruotano i temi dell’abbandono, dell’omofobia sistemica, e della solitudine strutturale a cui sono destinate le vite non normate. Nell’assenza di riconoscimento legale e sociale, anche la morte si fa esilio: la compagna della donna, Jeong-nam, non ha alcun diritto sul corpo dell’amata, che diventa proprietà dello Stato, del vuoto, dell’oblio.
Kangyu costruisce una riflessione radicale sull’abitare, non solo come spazio fisico ma come condizione ontologica. L’appartamento, luogo per eccellenza della sicurezza domestica, si trasforma in campo di battaglia simbolico: mentre Hee-seo cerca di mantenere una rispettabilità che le consenta di sopravvivere nel contesto aziendale maschilista, Sun-woo si lascia invadere dal perturbante, rifiutando di ignorare la puzza, ovvero la verità che quella società vuole tenere nascosta.
La narrazione metaforica si sdoppia: da un lato il thriller olfattivo, dall’altro il dramma esistenziale. E proprio nel passaggio tra questi due registri si apre lo spazio per una tenerezza inattesa, una possibilità di cura che nasce non dalla risoluzione del conflitto, ma dall’accettazione della vulnerabilità condivisa. Sun-woo e Hee-seo seppelliscono simbolicamente la donna morta, creando un piccolo mausoleo segreto per tramandarne la memoria. In questo gesto, la cura si fa resistenza, e la memoria diventa forma di giustizia postuma.
Lucky Apartment è un’opera che chiede di essere indossata più che interpretata. In un’epoca in cui i diritti LGBTQIA+ continuano a essere oggetto di contesa, e in un contesto – quello sudcoreano – in cui il riconoscimento giuridico è ancora frammentario, il film non offre soluzioni né proclami, ma mostra l’irriducibile complessità del vivere queer in un mondo che vorrebbe questa realtà trasparente, neutrale, silenziosa, senza riconoscimento, tantomeno diritti.
Con uno sguardo che mescola rigore documentario, immaginazione poetica e urgenza politica, Kangyu Ga-ram apre uno sguardo e, allo stesso tempo, ne custodisce il dolore come forma di conoscenza. Un ritratto necessario del nostro tempo: non solo per ciò che racconta, ma per il modo in cui costringe a sentire ciò che solitamente non ha voce – o, in questo caso, ciò che non ha odore.
L’invisibile non è ciò che non si vede, ma ciò che si sceglie di non guardare.(Jacques Derrida)
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