LUCE

Luca Bellino E Silvia Luzi

1h 34m  •  2024

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Recensione di Beatrice On 15-Jan-2025

Chi sarebbe così insensato da morire senza aver fatto almeno il giro della propria prigione?

Una giovane donna, durante una cerimonia familiare; il suo sguardo si ferma su un drone che fluttua sopra la scena, catturando l'innocenza di un momento festivo. Da questa apparizione, da questo occhio meccanico che penetra le cortine del quotidiano, germoglia un’idea – o forse una possibilità – incerta e fragile: l'uso di quel mezzo per attraversare la distanza che separa lei da un padre ormai lontano, rinchiuso in una prigione di tempo e spazio. Un contatto che potrebbe annullare l'abisso che li separa, ma anche condurre verso una nuova e forse più dolorosa disillusione. O forse, tutto ciò non è che una vana illusione…

Il mondo di Luce è uno spazio liminale, sospeso tra la realtà e il sogno, tra il desiderio di redenzione e l’angoscia che nasce dalla consapevolezza di una finitezza non superabile, attraversato da una luce che non brilla mai in modo definitivo, ma che scompare e riemerge, quasi come un eco lontano di un senso che non si rivelerà mai completamente. La condizione esistenziale di ogni individuo: l’incertezza dell’esistenza e la ricerca incessante di un significato che non arriva, la tensione dialettica tra il visibile e l'invisibile, tra ciò che possiamo comprendere e ciò che ci sfugge perché l’essere è gettato nel mondo senza una guida.

L'interpretazione di Marianna Fontana, che con mirabile capacità sostiene quasi l'intero peso del film, è un esercizio di introspezione radicale. Il suo viso, catturato dai registi in lunghi piani-sequenza, diventa il palcoscenico su cui si dispiega la sua solitudine, un mondo di emozioni distillato in ogni sguardo e in ogni respiro. Non si tratta solo di una performance, ma di un'esperienza di dissoluzione e di ricerca: la figlia che tenta di recuperare un legame che è stato spezzato dal tempo e dalla costrizione, ma che forse non esiste nemmeno più, se non nel profondo di un desiderio irrealizzabile. In questo, si riflette l’ombra di una pregressa ossessione, quella di un genitore che, nel film precedente dei registi, si perdeva nella figura di una figlia altrettanto inafferrabile. Qui, l'ossessione si ribalta: non è più il genitore ad agire, ma è la figlia a cercare di ritrovare un padre che potrebbe non essere mai stato davvero presente.

“L’esigenza che ci ha portato a raccontare questa storia – hanno detto i registi – è forse biografica. Parla di rapporti di potere. E noi abbiamo scelto ancora una volta il rapporto tra un padre e una figlia. Sono i temi che noi trattiamo, la famiglia come grado 0 della rivoluzione. E come arena quel sud Italia che racchiude in sé tanti mondi: un luogo di umori, paesaggi sfaccettati, posti freddi e montagnosi dove l’orizzonte è anche fisicamente difficile da vedere. Volevamo questa nostra protagonista chiusa in un luogo che non ha nome, come la protagonista stessa. Non è il sud che si racconta, ma è un sud buio, perché esiste anche quello’’

L'uso di ampi diaframmi fa sì che il mondo circostante si dissolva nell’indefinito, così come la protagonista è costretta a fare i conti con una realtà che sfugge alla sua comprensione, ma che è ugualmente parte di lei. La messa in scena diventa un atto di metafisica; come ogni parola non detta, come ogni sguardo trattenuto, le verità rimangono inquiete, sospese in una zona grigia, sospetta, tra la fiducia e il tradimento, tra il ricordo e la finzione. La realtà non è altro che un gioco di specchi, uno spazio di tensione in cui la protagonista cerca di identificare il mistero della propria esistenza.

Ogni luogo che compone l'universo del film – quello carcerario, quello familiare, quello della solitudine quotidiana – diventa un simbolo di esistenza coatta. La prigione non è mai solo una questione di mura e sbarre: è la condizione di chi vive, ma non è mai pienamente libero. La protagonista si muove tra queste gabbie: tra il lavoro alienante in una conceria e il carcere in cui il padre è rinchiuso, tra l’indifferenza di una casa che si trasforma in prigione e la ricerca di un legame che potrebbe non essere mai restituito nella sua interezza.

Nel corso del film, la luce si manifesta come una presenza effimera, una promessa non mantenuta. È un riflesso che fa sembrare la verità vicina, ma che rimane sempre distante. Il desiderio di trascendere il quotidiano e di trovare un senso che non è mai raggiungibile.

Eppure, in questo caos la possibilità di redenzione passa attraverso l’illusione di una comunicazione. Un drone, un cellulare, un filmato di una comunione – questi strumenti apparentemente banali si rivelano veicoli di speranza, di connessione, di (ri)costruzione di un legame umano. Ma il film non fa che sfiorare la superficie di questo desiderio di liberazione, senza mai concedere al pubblico la possibilità di una conclusione definitiva. L'atto del parlare, del comunicare, si trasforma in un'agonia, in un momento di tensione sospesa, in cui ogni parola è più un sospetto che una risposta. L’incertezza diventa la trama, la rivelazione si fa sempre più sfuggente, come il volto di un padre che non vediamo mai, come la figlia che non si vede mai completamente, perché è solo nel silenzio e nella distanza che si svolge il dramma esistenziale.

“Non mi devi chiamare mai”, le dice il padre con un tono severo e sarcastico, …”i padri sono strani, noi preferiamo diventare fantasmi, siamo più bravi”.

Un film in cui i bambini disturbano e i figli sono sempre un problema.

Dal punto di vista estetico, Luce è un film che fa della luce stessa la sua protagonista, pur rimanendo fedele all'ambiguità del suo simbolismo. Le inquadrature sono per lo più intime, claustrofobiche, e la luce viene usata in maniera simile a come un pittore userebbe il chiaroscuro: non per risolvere l'oscurità, ma per enfatizzare la tensione tra il visibile e l'invisibile. Gli spazi sono spesso angusti, come a voler riflettere la mente della protagonista, la quale si muove in un mondo che sembra sempre sfuggirle, proprio come il senso della sua esistenza.

“Volevamo continuare a raccontare il rapporto con il potere, che sia padre o padrone”, spiegano Luzi e Bellino, “quel potere che quando è famiglia ti schiaccia e quando è lavoro ti aliena. Abbiamo provato a farlo attraverso il tumulto di una giovane donna in un contesto che la vuole operaia, ignorante, sottoposta, e che la induce a una scelta malsana alla ricerca di un'assenza e di una voce che diventano vita parallela. Forse inventata, o forse più vera del vero. Il metodo di lavorazione è quello che amiamo: una sceneggiatura riscritta giorno per giorno, luoghi veri, persone reali, riprese in sequenza, una recitazione che non è più finzione ma messa in scena di sé stessi”.

Il film si struttura in un gioco di sfocature e di ombre, costruendo una parabola di crescita e disillusione che tocca la profondità dell’umano. La liberazione che si intravede è una liberazione parziale, un atto di resistenza all’insensatezza dell'esistenza. Se il film può sembrare un atto di disillusione, in realtà è una dichiarazione di fede nel desiderio: "I desideri sono meglio delle promesse". Non importa se la ricerca di un padre non avrà mai risposta, ciò che conta è il desiderio di trovare, di parlare, di vivere oltre il dolore e la solitudine. Ed è in questa ricerca che il film si eleva, giungendo alla sua forma più pura: il dramma esistenziale si mescola alla verità politica e sociale, e il cinema stesso si fa metafora di una continua lotta per significato in un mondo che sembra incapace di concederlo.

Il film si chiude con la sensazione di un incompiuto, di una ricerca che non arriverà mai a termine, un po’ come il cammino dell’esistenza stessa. La "luce" è prima di tutto un simbolo ambiguo, la manifestazione di una ricerca che, nel suo incedere, sembra non condurre a una vera e propria rivelazione, ma piuttosto a un incontro con il vuoto che si nasconde sotto la superficie delle cose.

Un ritratto sgranato, un riflesso di sé in cui vedersi, forse, disperatamente per la prima volta, forse anche l’unica volta. Un film in cui forse non c’è niente da dire, da spiegare: occorre semplicemente mettersi in sintonia con il proprio sentire, con le immagini che velano quasi tutto e non vogliono, forse per questo, affermare nulla.

Nessun sogno è mai stato così insensato come la sua spiegazione.

15-Jan-2025 di Beatrice