
Recensione di Beatrice On 20-Aug-2023
Un sibilo assordante fa da nota sonora all’incipit del film.
Migliaia di piantine prodotte in laboratorio hanno bisogno di esperti che si prendano cura di loro: se mantenute alla temperatura ideale, nutrite in modo adeguato e stimolate dalla parola arrecheranno un sentimento di felicità nel proprietario.
Alice Woodard è la ricercatrice a capo dell’equipe, è lei l’artefice di tale prodigio, ha progettato un fiore color magenta, colore che può essere ottenuto mischiando quantità uguali di luce rossa e blu. E’ il colore complementare del verde; il pigmento magenta assorbe la luce verde: tutti colori presenti maniacalmente nella ricercata fotografia arty della Hausner.
Il rapporto tra la genetista botanica, madre single e il figlio Joe è molto confidenziale, mangiano food delivery mentre il ragazzino fa paragoni tra il padre e il collega di laboratorio, il primo troppo diverso da lei mentre l’altro decisamente più elettivamente affine.
Tuttavia il ragazzo non riesce a coinvolgere la madre workalcoholic ad attività alternative al lavoro da condividere insieme e costei confessa alla psicoterapeuta di avere il timore che possa accadere qualcosa a Joe, il quale tuttavia ha un formicaio in casa del quale si prende premurosamente cura.
Contrariamente alle disposizioni aziendali Alice decide di portare nella propria abitazione l’ artificiale produttore magenta di OSSITOCINA battezzato Little Joe, che veglierà sul figlio.
Disposto come altare in un angolo della casa distoglierà l’attenzione del ragazzo dal formicaio, un primo segnale.
Già altri eventi avevano indicato dei cambiamenti nel laboratorio, vedi la reazione del cane di Bella, l’anziana collega di ricerca, con un tentato suicidio alle spalle…
Tutto gira intorno alla percezione più o meno oggettiva delle trasformazioni delle persone: un mondo gelido, artificiale, algido interno e pressoché identico all’esterno.
Il dubbio mantiene costante l’equilibrio del film: il fiore all’ossitocina produce serenità o elimina semplicemente ogni pulsione emotiva? Produce una sensazione di piacere o livella semplicemente l’umore? Può essere considerato semplicemente un antidepressivo o uno stabilizzatore dei nostri stati d’animo?
Perché utilizzare il termine ossitocina e non dopamina o serotonina o endorfina considerate anch’esse molecole della felicità?
L’ossitocina è un ormone di tipo proteico prodotto dall’ipofisi, immesso nel sistema circolatorio e rilasciato dai recettori nervosi di alcune cellule. Svolge la funzione di regolare organi e tessuti periferici durante il momento del parto e dell’allattamento, stimolare il desiderio sessuale e favorire l’affettività e l’empatia.
Fino a pochi anni fa, questo neurotrasmettitore era noto esclusivamente per il ruolo svolto al momento del travaglio e dell’allattamento, poiché facilita le contrazioni uterine e favorisce la produzione di latte da parte delle ghiandole mammarie. Recenti studi, hanno dimostrato che in realtà questo ormone interviene anche in molti processi della nostra vita, giocando un ruolo di primo piano tanto in ambito sessuale quanto nella sfera dell’affettività e dell’emotività.
Sembra evidente si voglia far convergere l’attenzione sul rapporto madre-figlio: quell’ormone che ha consentito il parto di Alice, rendendola madre
potrebbe forse aiutarla a trovarle un distributore di affettività ed emotività sostitutiva?
L’inalazione di ossitocina può esser una alternativa all’abbraccio, ad un pranzo preparato, all’amore materno?
Il progetto machiavellicamente inquietante di Alice è innocente?
Le eventuali conseguenze collaterali presunte o imprevedibili sono state considerate?
Il film è una raggelante artificiale e diabolica produzione di un thriller comportamentale dove tutti sembrano affidabili studiosi dediti alla ricerca mentre sono la glaciale affermazione dei più sintetici individualismi.
Alice che avverte ancora la sua culturale inadeguatezza ad essere madre sente la necessità di restituire al figlio qualcosa che sentimentalmente non può dargli.
La sua fertilità biologica è una sterilità sentimentale e in un mondo dove non c’è tempo per la cura e l’attenzione il post psicofarmaco potrebbe essere allevare una pianta che ti rifornisce di ossitocina: una sorta di Alexa che invece di rispondere ai tuoi desiderata li elimina.
Dopo la pet therapy la plant therapy: sostituire l’amore di un essere animato con uno spacciatore di ormoni, i cui effetti collaterali sono ancora apparentemente non conosciuti.
Tu non sei più vicina a Dio
di noi: siamo lontani
tutti. Ma tu hai stupende
benedette le mani.
Nascono chiare a te dal manto,
luminoso contorno:
Io sono la rugiada, il giorno,
ma tu, tu sei la PIANTA
La madre/pianta con le sue mani/foglie accoglie la vita come fosse rugiada, ma essere madre non si risolve nell’essere genitrice; senza la condizione dell’accoglienza il parto si fa sterile.
Il gioco a due tra Alice e la pianta sottopseudonimo di Little Joe nasconde la vera sterile identità: un altare alla madre che non è e non potrà essere.
I colori accesi, la musica di Teiji Ito scandiscono i tempi e le emozioni; immagini e note sono protagonisti assoluti insieme al rosso/magenta presente in ogni singola scena, anche in un solo particolare. Tamburi e ritmo acuiscono le atmosfere rarefatte e ricordano non tanto gli ultracorpi quanto lo spettro degli zombie haitiani di Bernard Brunello.
Un miracolo della forma quello di LITTLE JOE, dove si compie una cromatica estetica psicoanalitica: la regista di Lourdes compie un altro straordinario miracolo; dalla glaciale psicopatologia del pellegrinaggio che non ha altro tempo di cura se non quello della guarigione dall’alto al diabolico ossessivo principio di prestazione della tecnica, che sostituisce al tempo della cura quello dell’annullamento del bisogno.
Un ritratto simbolico quello della Hausner, politico, sociale, antropologico, dove la magia apollinea della vivace superficie nasconde la velata profonda realtà del del pathos: perché al LOGOS tutti gli onori e al PATHOS le cure?
20-Aug-2023 di Beatrice