LILIANA

Ruggero Gabbai

1h 24m  •  2024

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Recensione di Beatrice On 13-Jan-2025

Dimenticare sarebbe un crimine, ma ricordare senza agire sarebbe una condanna.

Un racconto della tragedia di una sopravvissuta ad Auschwitz e una riflessione profonda sulla trasmissione del trauma attraverso le generazioni. L’opera si apre a un’esplorazione filosofica dell’esistenza e della memoria, rivelando come il dolore, pur non essendo mai totalmente esprimibile, si radica e si trasmette, permeando le relazioni familiari, le esperienze personali e le dinamiche sociali. Questo non è solo un film su una testimone storica, ma una meditazione sull'impossibilità di liberarsi completamente dalla Storia e sulle sue implicazioni sul nostro essere nel presente.

Il documentario si sviluppa attraverso un mosaico di voci, che spaziano da figure pubbliche come Mario Monti, Ferruccio De Bortoli, e Fabio Fazio, a membri della scorta della Segre e amici come Geppi Cucciari. Ognuno di loro offre il proprio ritratto di Liliana, rivelando come la sua immagine pubblica si sia evoluta nel corso degli anni. Ma, come sottolinea Gabbai, ciò che più lo ha colpito durante la realizzazione del documentario è stato il delicato rapporto di Liliana con i suoi figli – Alberto, Luciano e Federica – che per anni sono rimasti all'oscuro della sofferenza passata della madre. Questo rapporto, così segreto eppure così carico di significato, diventa l’essenza del film.

Gabbai, infatti, sottolinea l'importanza di come, per la prima volta, il documentario esplori il trauma delle seconde generazioni. Non sono i figli di Liliana a portare il peso diretto della sua esperienza, ma ne sono comunque segnati. La loro sofferenza non è visibile o immediata, ma è un dolore sotterraneo, radicato nell’impossibilità di accedere pienamente alla memoria del genitore. L’episodio che maggiormente evidenzia questa dinamica è il momento in cui Federica, a 13 anni, l’età in cui Liliana fu deportata, ascolta per la prima volta la madre leggere alcune pagine dei suoi diari. Federica racconta della sua grande sofferenza: un dolore che non è nemmeno un’accusa, ma una constatazione esistenziale. Da quel momento, Federica sente di aver preso in mano un “testimone” che non aveva scelto e che, purtroppo, era diventato inevitabile. La narrazione di Gabbai diventa, così, anche una riflessione sul peso che il passato e il trauma comportano per chi vive nell'ombra del ricordo altrui, ma anche sull'incomunicabilità che spesso permea i legami familiari.

Non è solo la storia di Liliana Segre, ma una "storia di famiglia", come afferma Gabbai. La Segre che emerge dal film non è solo una testimone del male assoluto, ma una madre, una nonna, una donna che ha imparato a vivere nonostante la memoria della sofferenza. Questo non significa dimenticare, ma piuttosto scegliere di sopravvivere senza rinunciare alla propria libertà e umanità. Nonostante il silenzio prolungato e il dolore rappresentato dalla depressione acuta che l’ha colpita, la Segre ha mantenuto un intransigente desiderio di libertà, di giustizia, di verità attraverso la rappresentazione di un senso, di un linguaggio e di una dimensione pubblica. La sua lucidità, quella capacità straordinaria di raccontare la realtà senza indulgere nell'emotività, si traduce nella precisione delle sue parole, che, come osservato da Ferruccio De Bortoli, sono “implacabili nei dettagli”. Quello che colpisce nella sua narrazione è proprio questa assenza di orpelli, questa limpidezza che non lascia spazio a sofismi, ma che, anzi, illumina la nostra ignoranza, la nostra indifferenza. Liliana ha saputo costruire una visione del mondo lucida e precisa e disincantata, capace di affrontare l’orrore senza cedere alla tentazione di essere consumata da esso.

Il film non si limita a mostrarci una figura storica, ma ci rende partecipi della sua lotta quotidiana contro la violenza, il razzismo, e la discriminazione. La figura di Segre, infatti, è quella di una donna che continua a resistere, nonostante le minacce e la violenza che, ancor oggi, la perseguitano: c’è chi le augura di morire tra atroci tormenti, come se non bastasse quello che la vita le ha destinato. La sua lotta è una lotta civile, ma anche esistenziale, un continuo interrogarsi sulla natura del male, sul senso di un'esistenza che, per tanti, sembra essere preda dell'odio e della paura. Liliana è la donna che, nonostante le minacce di morte – per quanto inaccettabili e stupide – ha scelto di non fuggire più, di non lasciare che la sua vita fosse ridotta alla paura. “Se qualcuno mi vuole ammazzare, lo faccia, ma io non scappo più!”: questa frase, che chiude il documentario, diventa il testamento di una vita intera, vissuta sotto il segno della lotta e della scelta.

La sua frase, “ho scelto la vita e sono diventata libera”, non è solo una riflessione personale, ma un atto pubblico che ci interpella tutti.

Il documentario ci lascia con una riflessione universale: la memoria è un atto di libertà, ma anche un fardello che si trasmette di generazione in generazione.

Il memoriale che Liliana Segre offre alla memoria storica e collettiva è un viaggio che attraversa non solo le esperienze di sopravvivenza ad Auschwitz, ma anche una riflessione profonda sul destino umano e sull'idea di indifferenza, quella maledetta indifferenza che ha reso possibile l'inferno dei campi di concentramento e che, troppo spesso, sembra ancora permeare la nostra vita quotidiana. Il suo racconto è, infatti, l'espressione di un doloroso passaggio: dal banco di scuola vuoto, simbolo della sua giovinezza perduta e della brutalità della deportazione, al banco del Senato, un banco che, seppur segnato dalla sua veneranda età, non è mai stato privo di significato e valore. È il banco dove Liliana Segre oggi porta la sua testimonianza come senatrice, impegnata a rendere viva la memoria, a combattere l'indifferenza che troppo spesso diventa l'arma più pericolosa della nostra società.

Il memoriale di Milano, un luogo che raccoglie le memorie e le voci di chi non c'è più, non può essere solo un simbolo di rimpianto per le vite spezzate, ma un grido di resistenza contro la tentazione di dimenticare. La parola indifferenza, che torna come un'ombra inquietante nei suoi racconti, è l'elemento che pervade l'intera esperienza di Liliana e degli altri sopravvissuti. Nulla è servito, ci ricorda, milioni di morti invano. Eppure, ogni testimonianza, ogni sforzo di raccontare quella verità, non è un atto futile. Perché non è l'oblio, ma la memoria, ciò che salva.

Il 6 febbraio 1944, il treno che trasportava Liliana e le altre prigioniere ebbe la fermata fatale al binario di Birkenau, dove la morte, impersonificata nell'inumano meccanismo delle camere a gas e dei forni crematori, li attendeva. È lì che un numero è stato impresso sulla pelle di Liliana: 75190, un numero che ha annientato la sua identità, ma che allo stesso tempo le ha conferito un'identità nuova, quella di sopravvissuta, quella di memoria vivente di un genocidio. Questo numero, che non era solo un segno di disumanizzazione, ma un segno di sopravvivenza, è oggi il simbolo della sua lotta.

Liliana racconta anche delle francesi, le prigioniere che arrivarono prima di lei al campo e che, nei primi giorni, cercavano di raccontare l'orrore che stava per inghiottirle. Quelle voci, che descrivevano la morte gasata, i corpi bruciati nei forni, e l’odore dolciastro della carne umana carbonizzata, furono ritenute folli: “Le pensavamo pazze”, dice Liliana, mentre era tutto vero.

Liliana Segre solleva anche una preoccupante previsione, un pensiero che appare sempre più rilevante nel contesto attuale: “Tra qualche anno rimarrà solo una riga sui testi di storia sulla Shoah”. Una riflessione che non si limita a una mera constatazione storica, ma che denuncia una tendenza crescente in Europa e negli Stati Uniti a minimizzare, dimenticare e ridurre a una mera annotazione un crimine che ha segnato l'umanità intera; le politiche attuali sembrano percorrere una strada opposta, minando ogni tentativo di preservare la memoria collettiva.

Il rischio che la Shoah venga progressivamente ridotta a una "riga" sui testi scolastici non è solo una questione storica, ma una questione politica. È un allarme sul fatto che l'Europa, così come altre aree del mondo, sta tornando a fare i conti con ideologie che avevamo pensato di aver sconfitto per sempre. In un'epoca segnata dal ritorno dei nazionalismi, dal rafforzamento delle politiche autoritarie e dalla diffusione di ideologie xenofobe, la memoria della Shoah è messa in pericolo non solo da una mancanza di educazione storica, ma da una vera e propria volontà di marginalizzare il valore universale della memoria. E questo è un dato che va ben oltre il semplice revisionismo storico, è una forma di rifiuto delle lezioni che dovremmo aver appreso dalla tragedia del XX secolo.

Oggi, come mai prima d'ora, l'indifferenza sta tornando a permeare le politiche europee. La crescente intolleranza verso l'altro, il rafforzamento delle politiche di chiusura, la criminalizzazione dell'immigrazione e l'erosione dei diritti civili sono solo alcuni degli esempi che vediamo in tutta Europa. Le politiche che oggi vediamo in molti paesi europei e non solo, che alimentano il razzismo, la xenofobia e l'odio verso le minoranze, non sono altro che il terreno fertile in cui possono germogliare i semi della violenza e dell'esclusione.

Liliana e la Shoah ci insegnano che ogni passo verso l'indifferenza, ogni volta che una società abdica alla propria umanità, ogni volta che non reagiamo all'intolleranza si apre una porta verso nuovi orrori.

Non possiamo mai abbassare la guardia contro il male che abbiamo visto, o sarà troppo tardi per fermarlo.

13-Jan-2025 di Beatrice