
Recensione di Beatrice On 06-Mar-2025
Ciò che la fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo una sola volta.
Iconoclasta, irrequieta, costantemente in tensione tra il desiderio di libertà e il peso della testimonianza, Lee Miller Penrose ha attraversato il Novecento come un'ombra lucida, penetrando la storia con il suo obiettivo e restituendola in immagini che sfidano il tempo. Nata in un'America ancora vittoriana, ma destinata a dissolvere ogni vincolo imposto al femminile, la sua traiettoria esistenziale si snoda tra il surrealismo, la moda e l'orrore della guerra, lasciando un segno indelebile nella fotografia e nella memoria collettiva.
Dall'esordio come modella, emblema di una bellezza algida e impenetrabile, alla scoperta della fotografia come strumento di creazione e verità, Miller rifiuta di essere musa passiva per diventare artefice del proprio sguardo. Al fianco di Man Ray, ne assorbe le sperimentazioni e le reinterpreta, alimentando un'estetica che sfida le convenzioni visive. La sua adesione al surrealismo non è mero stile, ma una presa di posizione ontologica: il reale, per Miller, va sezionato, destrutturato, ricomposto in forme che rivelino ciò che la superficie nasconde. La sua arte è sempre un atto di disvelamento.
Ma se il surrealismo le insegna a guardare oltre l'apparenza, è la guerra a radicalizzare il suo sguardo. Lontana dai circoli artistici, si immerge nel caos del mondo, diventando testimone di una realtà che non può più essere trasfigurata: il conflitto la conduce nei luoghi dove l'umano è stato annientato, e lei restituisce immagini che non lasciano scampo. La liberazione di Dachau e Buchenwald, la devastazione delle città europee, la desolazione post-bellica: ogni scatto è una ferita impressa sulla carta, una visione che non ammette finzione. Il celebre ritratto nella vasca da bagno di Hitler diventa l'epitome del suo percorso: una donna immersa in un luogo che appartiene al male assoluto, ma che lo trasforma in scena ironica e perturbante, ribaltando il potere con un gesto di inesorabile lucidità.
Il biopic che tenta di restituirne il genio e la complessità si scontra però con i limiti di una narrazione eccessivamente codificata. Nonostante l'impegno interpretativo di Kate Winslet, capace di restituire la forza e le contraddizioni della fotografa, il film scivola spesso nella convenzionalità, ricorrendo a soluzioni visive e drammaturgiche che sembrano confezionate per un pubblico più incline alla celebrazione che all'indagine. La costruzione dei flashback, il contrasto cromatico tra la vita bohémienne e l'orrore bellico, la didascalicità di alcuni dialoghi tradiscono un'eccessiva semplificazione di una figura che si nutriva di ambiguità e contraddizioni.
Se da un lato il film riesce, almeno a tratti, a evocare la potenza delle immagini di Miller, dall’altro sembra voler edulcorare la sua complessità, riducendola a un percorso di emancipazione personale piuttosto che restituirne l’inquietudine profonda. La sceneggiatura si limita spesso a ripercorrere tappe già note senza riuscire a trasmettere la tensione creativa che caratterizzò la sua vita. Il rapporto con Man Ray è liquidato con superficialità, senza esplorare davvero la dialettica di influenze e conflitti che lo rese un nodo cruciale del suo percorso artistico. Anche il trauma del dopoguerra, fondamentale per comprendere il suo progressivo allontanamento dalla fotografia, viene accennato ma mai approfondito davvero, lasciando l’impressione di un ritratto incompleto.
Visivamente il film oscilla tra momenti di grande suggestione e un'estetica troppo patinata, che smorza l’urgenza della narrazione. I toni caldi e avvolgenti della prima parte cedono il passo a una rappresentazione della guerra in cui il dramma si fa quasi estetizzante, privando alcune sequenze della loro necessaria brutalità. L’uso della fotografia all’interno del racconto è interessante ma non sempre efficace: se da un lato ci permette di vedere il processo dietro alcune immagini iconiche, dall’altro rischia di trasformare la protagonista in un’ingenua spettatrice dei propri scatti, tradendo il carattere profondamente attivo del suo sguardo.
Il film non sempre coglie questa dimensione, lasciando il sospetto che si sia preferito renderla più accessibile, più facilmente comprensibile, a scapito della sua vera essenza. La figura di Lee Miller, però, resiste. Anche quando la narrazione la riduce, il suo sguardo continua a interrogarci, irriducibile e necessario, nel suo essere frammento e totalità, artista e testimone, mito e enigma irrisolto.
Un trauma infantile irrisolto, rimasto soffocato nel silenzio voluto dalla madre, diventa il detonatore di un’esigenza espressiva che trova nella fotografia il suo linguaggio privilegiato. L'immagine fotografica non è solo documento o certificazione di un passato sepolto, ma si fa atto di svelamento, di riappropriazione della memoria, di testimonianza esistenziale.
Nel linguaggio cinematografico, questa dinamica si traduce in una tensione tra il visibile e l’invisibile, tra ciò che l’obiettivo inquadra e ciò che resta ai margini, tra la verità fissata nell’istantanea e il rimosso che continua a sfuggire del tempo e di cattura dell’essenza sfuggente della realtà.
La fotografia, in questo senso, non è solo una traccia del passato, ma un dispositivo narrativo che costruisce un dialogo complesso tra il soggetto e la sua stessa storia. Il trauma diventa così il motore di un’indagine incessante, un'ossessione per la registrazione del reale che finisce per rivelare più di quanto si vorrebbe nascondere.
Non si comprende come sia possibile, sulla base di una tale straordinaria storia vera e con un cast di eccellenza, essere riusciti a costruire un film mediocre, banale, privo di quella profondità che il materiale di partenza sembrava promettere. Il risultato è un'opera in linea con la televisione più pop e mainstream, che appiattisce la complessità della vicenda in una narrazione convenzionale, priva di mordente e di un'autentica ricerca stilistica.
Anche la messa in scena sembra rispondere più alle esigenze di un racconto rassicurante e facilmente digeribile per il grande pubblico che alla volontà di interrogare lo spettatore, di sfidarlo con ambiguità e zone d’ombra. Il risultato è un'opera che, pur partendo da un nucleo narrativo potente, si disperde in una confezione priva di personalità, incapace di lasciare un segno duraturo nella memoria di chi guarda.
Una fotografia è un segreto su un segreto. Più ti dice, meno sai.
06-Mar-2025 di Beatrice