Ciò che non si vuole sapere di sé stessi, è proprio ciò che il destino ci ripeterà senza fine.
— Carl Gustav Jung
Con L’erede, Xavier Legrand prosegue il suo viaggio nell’anatomia del dolore familiare, intrecciando i fili invisibili che legano il trauma alla rimozione, la memoria al silenzio e alla violenza. Se in Jusqu'à la garde la famiglia era il campo di battaglia dove si consumava l’irreparabile, qui diventa il teatro della trasmissione—non del patrimonio, ma della ferita.
Il film si apre con un’immagine dall’alto: una spirale che ruota lenta sopra la passerella, come se lo sguardo stesso fosse risucchiato in un moto che non ammette vie di fuga. Questo movimento circolare, silenziosamente minaccioso, non è soltanto un artificio estetico: è il simbolo visivo dell’eredità, forza invisibile che trascina tutto con sé. L’ingresso nel regno della moda coincide con un’attrazione gravitazionale, una traiettoria già tracciata che il protagonista sembra voler ignorare, ma che lo avvolge senza pietà.
Nel cuore di questa rappresentazione di potere e apparenza, Ellias, nuovo creativo del marchio, compie un gesto rivelatore: chiamato a scegliere le modelle per la copertina celebrativa, esclude deliberatamente quella troppo legata al passato, troppo connotata dal predecessore. Così, dietro l’apparente neutralità di una scelta estetica, si cela il rifiuto radicale del legame: Ellias vuole apparire come figura originaria, senza padre, senza radici, creatore assoluto di sé stesso. In quella selezione – o meglio, in quell’esclusione – prende forma una strategia di rimozione: costruire il nuovo non sul passato, ma contro di esso.
Eppure, l’inesorabile spirale iniziale ci ha già detto ciò che Ellias non sa ancora: non si eredita solo un nome, ma anche il vuoto, i fantasmi, le omissioni che lo sostengono.
Il film prosegue con un ritorno, ma non c’è nulla di nostalgico nell’aria. L’erede—giovane uomo apparentemente riuscito, emancipato, con molti disturbi psicosomatici—torna nel luogo dell’infanzia non per ritrovarvi qualcosa, ma per seppellirlo definitivamente. E tuttavia, come spesso accade nei racconti delle origini, il passato ha una vitalità ostinata. I muri della casa paterna non sono solo intonaco e ricordi: sono carne viva, memoria che pulsa, testimone muta di un dolore mai articolato.
Legrand esplora la famiglia come luogo dell’enigma e della dissimulazione. Ogni gesto, ogni parola scambiata tra i membri superstiti della costellazione familiare sembra portare un doppiofondo. La trasparenza è un miraggio. Qui la comunicazione non veicola chiarezza, ma ambiguità. L’eredità non è tanto un bene da ricevere, quanto un veleno da metabolizzare, una verità indicibile da ingoiare.
Il trauma, in L’erede, non è mostrato frontalmente. Non c’è e non c’è catarsi. C’è invece una lentezza opaca, una resistenza alla narrazione lineare: i ricordi emergono a scatti, in immagini quasi afasiche, che incrinano l’identità del protagonista come una crepa che si allarga nella superficie liscia della vita adulta. La rimozione agisce come un principio strutturale: ciò che non è stato detto ritorna, non con parole, ma con gesti, oggetti, sguardi che fanno male senza spiegarsi.
Il rimosso ritorna. Ma non sempre bussa.
— Jacques Lacan
Legrand evita ogni psicologismo, preferendo un approccio quasi fenomenologico alla sofferenza. Lo spettatore non sa, non vede: sente. La macchina da presa aderisce ai corpi come se cercasse una verità sotto la pelle. È in questo scarto—tra ciò che si mostra e ciò che resta opaco—che il film costruisce la sua potenza.
La famiglia, sembra dirci Legrand, è sempre una sorpresa. Ma non nel senso della scoperta gioiosa. È un pozzo profondo dove le verità si sedimentano come detriti, e da cui ogni tanto qualcosa risale: una frase, una foto, una reazione inspiegabile. L’erede è colui che, volente o nolente, dovrà fare i conti con questo fondo torbido. Eredita non solo un cognome, ma un insieme di silenzi, omissioni, colpe distribuite con tale sottigliezza che sembrano evaporate—e invece sono lì, sotto la pelle della casa, incistate nella carne della memoria.
In questo senso, la scena del video mostrato durante il funerale rappresenta il momento più agghiacciante del film: non tanto per ciò che mostra, quanto per l’ulteriore abisso che suggerisce. È una soglia visiva del presente, vissuto personalmente. E sarà l’amico del padre, destinatario delle chiavi della casa e invitato a “frequentare la cantina”, a doversi confrontare, forse per primo, con il cuore nero della rimozione: un testimone involontario e tardivo, consegnato a un’eredità che non gli appartiene, ma che gli si incolla addosso come una azione riflessa, quella della fiducia e del destino.
In fondo, L’erede è un film sulla responsabilità: non quella giuridica o sociale, ma ontologica. Cosa significa ereditare un trauma? Come si può sopravvivere a ciò che si è cercato di dimenticare? E soprattutto: è possibile non trasmettere ciò che ci ha distrutto?
Il trauma non è ciò che ci accade, ma ciò che accade dentro di noi in assenza di un testimone.
— Peter A. Levine
Un’opera spietata e necessaria, che fa della sobrietà formale il suo stile etico. Un film che, come il trauma, non si dimentica.
La memoria del corpo è più fedele di quella della mente. E più crudele.
— Pascal Quignard