
Recensione di Beatrice On 11-Mar-2025
Il patriarcato non ha paura delle donne silenziose. Ha paura delle donne che ridono, gridano e scrivono la propria storia.
Nel cuore di Marsiglia, tra le mura di un appartamento e il fragile confine di un balcone condiviso, si consuma il dramma di tre donne – Nicole, Ruby ed Elisa – che, strette da un’amicizia indissolubile, si ribellano alla violenza muta e radicata del patriarcato. La loro esistenza, sospesa tra il riso e il dolore, è un grido soffocato, un atto di insurrezione contro un sistema che da secoli le costringe a incarnare un destino scritto da mani maschili.
L’immagine iniziale è un colpo allo stomaco: una donna giace al suolo, coperta di lividi. Un uomo esce, la guarda con fastidio e le intima di smetterla con quella “scenata”. Lei è svenuta. Lui le getta addosso un secchio d’acqua, impaziente: ha fame e vuole che lei gli prepari la cena. In questo gesto sprezzante e brutale si condensa l’essenza di una cultura che, per secoli, ha fatto del corpo femminile una proprietà, una funzione, un servizio. Ma qualcosa si sta muovendo. L’irreversibile sta per compiersi.
Merlant costruisce un universo sospeso, immerso in una dimensione di straniamento e surrealtà. Con un magistrale piano sequenza che abbraccia le finestre di due palazzi, ci costringe a diventare testimoni involontari, voyeur silenziosi di un mondo che è sempre esistito sotto i nostri occhi, ma che troppo spesso scegliamo di ignorare. L’ironia si insinua nella narrazione come un veleno dolce: la commistione di generi – commedia, thriller, grottesco – non è un gioco stilistico, ma un linguaggio necessario per sovvertire il canone e raccontare il trauma senza vittimismo, la ribellione senza retorica.
Nicole, Ruby ed Elisa non sono semplicemente donne: sono archetipi in frantumi, simboli di una femminilità che ha smesso di essere mistero da contemplare – perché, dopotutto, “il mistero di una donna non è un vanto, ma una punizione”. Nicole scrive, attinge dalla vita delle sue amiche, che è sempre più sfrenata della sua; Ruby rivendica la propria sessualità, mostrando il corpo con fierezza, mentre Elisa cerca di sfuggire a un amore che si è trasformato in prigione. Sono carne e sangue, secrezioni e desiderio, pura forza generativa. Il loro corpo non è oggetto di seduzione, ma strumento di espressione, e il loro sguardo non è più quello dell’eterna musa, ma di chi finalmente prende parola e agisce.
L’episodio del vicino impalato, esposto in tutta la sua ridicola vulnerabilità, è un ribaltamento feroce del voyeurismo maschile: il corpo dell’uomo, denudato e oggettificato, diventa una caricatura grottesca, un’eco tragica di una virilità che si crede inviolabile. I poliziotti, ridicolmente ipermascolini, aiutano le protagoniste a occultare il corpo, ignari di essere pedine di un gioco che sfugge alla loro comprensione. E qui Merlant compie l’atto più radicale: il maschio, fino a che non ammette le proprie colpe, è un fantasma, un’ombra priva di sostanza. La sua inconsapevolezza lo rende superfluo, il suo dominio si dissolve nell’aria come un’illusione mal riuscita.
Ma il film non si accontenta di denunciare: il suo sguardo affonda fino alle radici della violenza culturale, là dove l’aborto diventa la liberazione da una relazione tossica, e l’omicidio l’unica via d’uscita dalla prigione del patriarcato. La narrazione non offre scuse né riscatto: la ribellione è assoluta, necessaria, quasi biologica. È il corpo stesso a ribellarsi, a rifiutare la passività imposta, a riscrivere le regole del gioco.
Merlant, con una maestria che sorprende per la sua lucidità e ferocia, evira il corpo maschile dalla storia e restituisce alla femminilità la sua centralità sovversiva. Eppure, il film non si appesantisce mai di dogmatismi: il tono resta leggero, beffardo, persino giocoso. Il patriarcato viene scardinato con una risata, la vendetta si consuma tra ironia e sensualità. In questo risiede la sua forza: la violenza non è solo fisica, ma culturale, ed è proprio questa la ferita più profonda, quella che Merlant ci costringe a guardare senza filtri.
L’ipnotica fotografia del film accompagna questa narrazione con una sensibilità carnale, esaltando il corpo femminile nelle sue infinite sfumature. Ogni inquadratura è un atto di liberazione, una celebrazione dell’espressività corporea: i corpi si rivelano senza remore, giocosi e fluorescenti, intimi e decorati, immersi in un’estetica che non teme la nudità ma la eleva a linguaggio sovversivo. Il corpo non è più un territorio da conquistare, ma un universo da esplorare, un tempio di secrezioni e sangue, un’icona della sua stessa libertà.
The Balconettes non è solo un film sulla libertà femminile. È un rito di passaggio, un atto politico, una dichiarazione di guerra. E alla fine, il corpo resta. Un corpo che non chiede il permesso di esistere, che non si scusa per il proprio piacere, che non è merce né simbolo, ma pura vita. Un corpo che ride, sanguina, uccide, sopravvive, regna. E balla sul balcone, sotto il sole di Marsiglia, mentre il mondo intero lo guarda e non può più distogliere lo sguardo.
Il problema delle donne arrabbiate è che prima o poi smettono di spiegarsi e iniziano a organizzarsi.
11-Mar-2025 di Beatrice