IL SEME DEL FICO SACRO DĀNE-YE ANJĪR-E MA’ĀBED

Mohammad Rasoulof

2h 47m  •  2024

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Recensione di Beatrice On 29-Jan-2025

Il ficus religioso è un albero dal ciclo vitale insolito.

I suoi semi, contenuti negli escrementi degli uccelli, cadono su altri alberi.

Le radici aeree spuntano e crescono fino al pavimento poi i rami si avvolgono intorno all’albero ospite e lo strangolano.

Infine il fico sacro sta in piedi da solo.

L'origine del dominio e dell'oppressione si annida nel nucleo primordiale della società: la famiglia. L'arma non è che un pretesto, un'illusione di potere, mentre la violenza si perpetua come eredità ancestrale, inscritta nel codice culturale, rigenerata dall'intolleranza e alimentata da una fede che, nel suo dogmatismo, si fa strumento di follia.

Cechov diceva che se in un racconto compare una pistola, prima o poi dovrà sparare. Qui, però, la pistola scompare. Con essa, si sfalda il fragile equilibrio di un uomo, Iman, che per vent'anni ha servito il regime. Rifugiato in un santuario nel deserto, egli non cerca redenzione, ma un contatto con l'immutabile. "Il mondo è cambiato, ma Dio no", afferma con la certezza di chi si aggrappa al potere come ultima ancora.

Prega, ma non è solo il rito a scandire la sua veglia: il destino lo convoca a una metamorfosi, una torsione interiore che lo porterà a incarnare la legge, giudice e carnefice insieme. La sua mutazione non avviene per scelta, ma per una concatenazione di eventi ineluttabili, scatenati dalla scomparsa della sua arma di servizio. Quell'oggetto, posto perennemente accanto a lui, epitome della sua autorità indiscussa nel regno domestico, svanisce nel nulla, facendo vacillare il suo potere costruito sulla sottomissione muta e sull'assenza di contraddittorio.

Ma il potere non è saldo, e la sua fragilità si manifesta proprio nella scomparsa della pistola, che minaccia di far svanire in un istante la sua credibilità professionale: ventun anni di carriera potrebbero dissolversi, tre anni di carcere lo attendono se non la ritrova. Il sospetto si insinua nella sua casa, trasformando la famiglia in un teatro di oppressione e paranoia.

Il film non si limita a raccontare un dramma privato, ma si fa portavoce di un'indagine più ampia, che affonda le mani nell'essenza stessa della coercizione e della violenza sistemica.

Le figlie, Rezvan e Sana, sembrano sapere più di quanto ammettano. "Non lo vedi perché sei dentro e vuoi preservarlo a tutti i costi", sussurra Rezvan alla madre, che da sempre cerca di mediare tra loro e il marito, un uomo che ha fatto della sudditanza allo Stato la sua ragione di vita. La madre si compromette per amore, le figlie per necessità.

Rezvan e Sana, che nell'inquietudine della giovinezza si sono risvegliate all'urgenza di un'insubordinazione necessaria, rispondendo all'eco delle proteste popolari che scuotono le fondamenta di una società asfittica.

Il film non concede risposte immediate, e nel frattempo Rasoulof dissemina il racconto di indizi, costruendo una tensione che avanza con crudele lucidità. Il mistero non è solo il motore della narrazione, ma un espediente per rivelare la natura stratificata dell'oppressione e della ribellione.

Iman, convinto che la verità sia nascosta nei corpi e nei gesti, le conduce da Alireza, un esperto di psicologia. Con l'ausilio di metal detector, bende e linguaggio del corpo, la ricerca della pistola si trasforma in un processo inquisitorio mascherato da terapia. La confessione diventa un atto estorto, registrato di nascosto, mentre la moglie si autoaccusa per proteggere le figlie. Ma Sana non è solo una spettatrice: immersa nel mondo digitale, segue il web, non la televisione di Stato. La tecnologia le offre strumenti di resistenza, tutorial per sopravvivere all'oppressione paterna.

Iman diventa il paradigma di un male che non è eccezione, ma norma. La famiglia, spazio che dovrebbe essere di cura e affetto, si rivela il primo e più implacabile teatro della tirannia. La religione, che dovrebbe guidare l'anima, si trasforma in catena e giustificazione del dominio. Il film è terrificante perché non concede alibi, non permette distacco: lo spettatore è costretto a interrogarsi, a chiedersi se ciò che osserva è realtà o rappresentazione. Rasoulof non concede il lusso della finzione rassicurante: il suo cinema è un atto di testimonianza.

La violenza cresce esponenzialmente, slatentizzandosi nell'ossessione di un uomo che, perdendo il controllo, svela la propria natura. Quella che era la sua famiglia diventa un campo di prigionia: le figlie non devono più difendersi dal mondo esterno, ma da lui. Intanto, fuori dalle mura domestiche, la teocrazia impone condanne: partecipare a una manifestazione equivale a cinque anni di carcere. "Abbasso la teocrazia", urlano nelle piazze, mentre il sistema si arrocca nel dogma: "La fede è un atto di sottomissione assoluta, non risponde a domande". "Ecco cosa vuoi da noi", ribattono le figlie al padre, ormai divenuto il loro aguzzino.

Le minacce non vengono solo dall'interno: un'auto cerca di speronare la loro, un avvertimento per chi firma condanne a morte. Nel riflesso dello specchietto, Iman vede una donna con cappello a visiera e trucco marcato, e il suo sguardo si carica di disgusto. La femminilità, la libertà, il dissenso: tutto ciò che lui teme e reprime. Ma il controllo non può essere eterno. La pistola rubata è il detonatore di un crollo più grande: quello di un sistema che si perpetua nella famiglia, nelle istituzioni, nei corpi piegati alla volontà di Dio, o di chi si arroga il diritto di esserne il tramite.

Nel finale, una fuga disperata tra le rovine di un paese che si sgretola. L'Iran, evocato non solo come luogo ma come condizione esistenziale, emerge nella sua lacerazione insanabile, un labirinto senza uscita in cui ogni nuovo inizio non è che una riproposizione del male sotto altre forme. Ma il furto dell'arma infrange questo patto, aprendo una breccia nel muro dell'assoggettamento.

E in quella breccia, un gesto. Najmeh, segretamente, lava via il sangue dal volto devastato di Sadaf, studentessa punita per aver osato rivendicare la propria libertà. Un atto di resistenza silenziosa, eppure dirompente, che si oppone alla logica della sopraffazione con la forza della cura e della solidarietà femminile. In quel gesto, l'orrore della realtà si fa insopportabile.

167 minuti che, dopo la prima ora di interno borghese, non concedono tregua; la narrazione si fa testimonianza, denuncia, urlo soffocato che non può essere ignorato. Rasoulof costruisce un'opera in cui il passato non è un'ombra lontana, ma una condizione che si perpetua nel presente, imponendo una riflessione su ciò che è e su ciò che potrebbe essere. Se il male esiste, è perché gli si permette di esistere. Ma nella disobbedienza si annida la possibilità di un'altra storia. Non resta che guardare, comprendere, agire. Perché chi abbassa lo sguardo è già complice.

Imprescindibile.

Il crimine non sarebbe nulla senza la mano che lo benedice e lo sguardo che lo ignora.

29-Jan-2025 di Beatrice