
Recensione di Beatrice On 04-Sep-2024
Su di un cerchio ogni punto d’inizio può anche essere un punto di fine
Scozia, Medioevo.
Un uomo si aggira per i campi, entrando in contatto con gli insetti, gli animali, la natura, le acque con le quali si fonde sessualmente come in un liquido amniotico.
Una comunità gestita da un padrone benevolo e umano Lord Kent cresciuto con Walter un contadino della comunità, narratore del film, osservatore cosciente, intriso di natura e talento di conciliazione, incapace di qualunque forma di violenza. Mentre gli abitanti del villaggio non amano gli stranieri e li mettono alla gogna, non sanno che verranno a breve espropriati dei loro naturali diritti e dovranno iniziare un viaggio di recupero, già perso in partenza: semplicemente l’inizio della perdita.
C’è un esperto chiamato a mappare il territorio, a stabilire i confini e le proprietà, dare nomi e significati, catalogare nomi, e piante, stabilire un linguaggio logistico irreversibile.
C’è un nuovo padrone che si appresta, c’è una nuova realtà che si palesa.
Nulla potrà più essere come prima.
Per la regista greca Athina Tsangari, produttrice dei primi due film di Lanthimos, è un ritorno a Venezia, dopo il suo secondo film Attenberg.
Il suo quarto lavoro – è il romanzo omonimo del 2013 di Jim Crace, ambientato in un remoto villaggio della campagna inglese, alla fine del Cinquecento, alla vigilia della rivoluzione agricola, quando i terreni che erano un bene collettivo passano sotto il controllo legale dei proprietari terrieri e racconta la reazione degli abitanti del villaggio a tre nuovi arrivati, che diventano capri espiatori in un periodo di turbolenza economica.
Il parlamento inglese promulgò gli Enclousers Acts, ovvero le leggi sulle recinzioni applicate ai campi e ai terreni comuni appartenenti a piccoli proprietari, avvantaggiando di fatto i grandi proprietari.
Con questo adattamento del romanzo Harvest di Jim Crace, sostiene la regista, abbiamo avuto la possibilità di esaminare il momento in cui tutto ha avuto inizio per noi che nel XXI secolo siamo eredi di una storia universale di perdita della terra. Per me, Harvest è un film sulla resa dei conti. Cosa abbiamo fatto? In che direzione stiamo andando? Come possiamo salvare il suolo, il sé all’interno dei beni comuni? Harvest si svolge in un mondo liminale, e illustra le prime crepe della “rivoluzione” industriale. Che rivoluzione non è stata. Una comunità agricola viene sconvolta da tre tipi di forestieri: il cartografo, il migrante e l’uomo d’affari, tutti archetipi di cambiamenti sconvolgenti.
Il futuro non fa parte della storia: accadrà fuori dallo schermo, in un mondo che non siamo destinati a vedere. Non ci sono eroi. Solo persone comuni e imperfette. L’ho immaginato come un dagherrotipo, o il suo equivalente moderno, una Polaroid esposta lentamente al crepuscolo.
Il mistero, i rituali, le cerimonie, le danze bacchico/dionisiache, i funghi lisergici, il fuoco, la salvezza e la distruzione, la fame.
Si miete il grano con la falce presagio di morte, di fine.
Ecco l’Harvest ossia il raccolto a cui si fa cenno…
Una umanità apparentemente in lotta seppur supina, vigliacca e codarda.
È il popolo che si assoggetta, che si taglia la gola e potendo scegliere fra l’essere servo e l’essere libero, lascia la libertà e prende il giogo; che acconsente al suo male, o piuttosto lo persegue.
Un film sul potere, la prepotenza, l’incipit del capitalismo, l’incapacità umana di resistere e di lottare, sul bene comune e la proprietà privata.
Un film, Il film sull’inizio della fine del mondo.
Quando gli abusi vengono accolti con la sottomissione, il potere usurpatore non tarda a convertirli in legge.
04-Sep-2024 di Beatrice