GREEN BORDER

Agnieszka Holland

2h 27m  •  2023

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Recensione di Beatrice On 06-Sep-2023

Suddiviso in 5 capitoli:

La famiglia: islamica, siriana.

La guardia: propaganda reazionaria polacca antirifugiati e la giovane guardia di frontiera Jan, in attesa di un figlio da Kaska.

Gli attivisti: le regole su quello che possono e non possono fare per aiutare i rifugiati abbandonati nei boschi, in fin di vita.

Julia: la sua storia di psicanalista e la sua decisione di offrire la propria casa come base per gli attivisti

Epilogo

The green border è quel confine tra la Bielorussia del dittatore Aleksandr Lukaschenko e la Polonia della estrema destra di Mateusz Morawiecki, presidente del consiglio dei Ministri dal 2017, già attivo dall’età di 12 anni nelle attività anticomuniste in Polonia.

Migranti africani e mediorientali che dalla Bielorussia entrano in Polonia, dopo violenze e pagamenti, illudendosi di aver finalmente raggiunto l’Europa e quindi la protezione prevista ma brutalmente respinti alla frontiera dal governo polacco che ha eretto un muro di 186 km per bloccare gli ingressi.

Un insostenibile andirivieni tra il confine polacco e quello russo mette a dura prova la vita e la resistenza di questi rifugiati in balia di una zona di frontiera dove patiscono il freddo, la pioggia, la fame e soprattutto la sete che può costare anche 50 euro a bottiglia.

Aiutati dagli attivisti a individuare le loro richieste di asilo e sottoposti a registrazioni per testimoniare le loro condizioni di provenienza, devono attendere che le richieste vengano esaminate, mentre uno dei bambini annega nella palude e l’anziano della famiglia decide di non salire sul camion e mentre l’Unione Europea vieta ai polacchi di espellere i rifugiati, ma tutto procede indisturbato.

Alla domanda di dove siano i politici e dove sia la comunità europea, si sente una fragorosa risata e Julia inizia il suo percorso di aiuto tra gli attivisti.

I cadaveri vengono gettati da una parte all’altra del confine mentre gli aiuti possono essere effettuati con medicinali, cibo, abiti, scarpe solo dove si trovano i rifugiati, nei boschi e nessuno può trasportarli in auto né tantomeno accoglierli in qualche struttura.

Tra accadimenti, inseguimenti, arresti, provocazioni, violenze, crudeltà il film della Holland cerca di aprire lo sguardo su un fenomeno che conosciamo ma che non abbiamo mai visto con i nostri occhi: vederlo attraverso un film è comunque un modo efficace per diffondere il dramma di queste vite.

Un rifugiato, definito dall’articolo 1° della Convenzione di Ginevra del 1951 è “colui che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal suo Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.

Tra il 2021 e il 2022 più di 30 mila persone hanno perso la vita in questo spazio geografico e la strage sta continuando mentre c’è chi continua a cercare di passare per la Polonia per raggiungere altre zone.

Viviamo in un mondo in cui sono necessari grande immaginazione e coraggio per affrontare tutte le sfide dei nostri tempi, sostiene la regista, la rivoluzione dei social media e l’intelligenza artificiale hanno ostacolato sempre più l’ascolto di voci autentiche. A mio avviso non ha alcun senso impegnarsi nell’arte se non si lotta per quelle voci, se non si lotta per porre domande su questioni importanti, dolorose, a volte irrisolvibili, che ci mettono difronte a scene drammatiche. Questa è esattamente la situazione in atto al confine tra Polonia e Bielorussia.

Agnieszcka Holland, punta il dito su questo spazio geografico, umano e disumano, nel quale si compiono atrocità e ingiustizie, senza che nessuno riesca, se non temporaneamente e parzialmente a dare un sollievo, sempre nel sospetto, nella diffidenza e nell’ostilità.

“Ti credevo solo una borghese che vuole curare la propria autostima”, sostiene una attivista rivolgendosi a Julia, ma costei dovrà agire nella più assoluta illegalità pur di salvare la vita ad alcuni ragazzi africani.

Una finestra cupa, in bianco e nero, nei boschi, tra le paludi, il gelo, la fame e la sete per offrire un ritratto di quello che accade indisturbato, tra chi si oppone all’accoglienza, chi deve tentare di sopravvivere in un modo o nell’altro e chi crede che si debba lottare e rischiare pur di salvare vite e far rispettare diritti che sono solo sulla carta.

Una realtà di fronte alla quale si può distogliere lo sguardo, si può non vedere, non sapere, non capire ma la Holland vuole disturbare producendo un arte non fine a se stessa, smontando l’indifferenza dello spettatore attraverso la denuncia, la domanda, l’impegno, la lotta, la resistenza.

Karl Marx sosteneva che “la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa”: qui la Holland ci mostra che tragedia e farsa hanno stipulato un contratto e convivono ormai (s)piacevolmente: gran parte degli attori del mondo vivono la tragedia e solo la rimanente parte la farsa.

La pellicola è Il filo spinato che percorre i 147 minuti scomodi, pungenti, essenziali che intrappolano lo sguardo, irretendolo in un labirintico inferno di assurdità, violenza e morte.

L’umanità che tratta il mondo come un mondo da buttare via, tratta anche se stessa come un’umanità da buttare via.

06-Sep-2023 di Beatrice