EMILIA PEREZ

Jacques Audiard

2h 10m  •  2024

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Recensione di Beatrice On 09-Jan-2025

L'uomo è condannato a essere libero, ma la sua libertà viene costantemente messa in scena, come un personaggio da spettacolo.

In un angolo oscuro del mondo, tra le pieghe della violenza e del disordine sociale, si intrecciano le esistenze di chi vive ai margini, segnate da un destino che non si piega alla convenzione. Immaginiamo un periodo confuso, una fine di decennio, dove le dinamiche dell’alterità e della lotta per il riconoscimento si mescolano con i codici più radicati e feroci della nostra esistenza. È il Messico, un paese in cui la giustizia è un’illusione e il potere si misura attraverso il sangue.

Un uomo, un capo, simbolo della brutalità più primitiva e della mascolinità esagerata, è costretto a fare i conti con la propria identità più profonda, quella che il mondo intero non può nemmeno immaginare. Un uomo che, pur immerso nella violenza del narcotraffico e nell’ombra di una famiglia apparentemente perfetta, è da sempre un'altra persona. Questo essere, che si è sempre visto riflesso nel proprio corpo maschile, si rende conto che quella maschera non è più sostenibile, che il desiderio di trasformazione è una necessità che non può più essere negata. Si fa chiamare Manitas, eppure il suo sogno è quello di diventare Emilia. L’idea di smantellare la propria mascolinità, di infrangere le leggi non dette della virilità, è al tempo stesso una liberazione e una condanna. Ma lo farà nel segreto più assoluto, perché il sistema che lo ha forgiato non perdona nemmeno i sogni più intimi. La sua realtà, infatti, è costruita su un’apparenza che non ammette deviazioni.

A questa richiesta, tanto insostenibile quanto necessaria, risponde un’avvocatessa che non ha ancora trovato la sua realizzazione, nonostante la propria capacità intellettuale e il rigore del suo mestiere. Lei, la figura che può essere vista come il simbolo dell’ordine e del diritto, deve compiere un atto che sospende ogni logica razionale: il cammino verso la ricerca di un chirurgo che possa aiutarlo a rinascere sotto un nuovo corpo. L'operazione non è solo fisica, ma filosofica, perché il suo compito non è solo quello di cambiare forma, ma di mutare radicalmente la percezione di sé.

Il processo di trasformazione è inevitabile. Quando il corpo di Manitas diventa quello di Emilia, una nuova esistenza si apre, come un nuovo capitolo di una vita che ha sepolto il passato nelle sabbie mobili della storia. Gli anni passano e l’identità di Emilia è ormai consolidata. Non è solo una donna: è una donna che ha saputo giocare le proprie carte, diventando una figura rispettata, ammirata, che sfida le convenzioni di una società cosmopolita. L’incontro con l’avvocatessa, ora una figura che ha preso il suo posto nel ciclo della storia, è un gioco di destini che non è mai casuale. Emilia, ora priva di legami al suo passato, vuole mettere in atto una nuova missione, portando con sé una visione tanto ambiziosa quanto pericolosa.

Eppure, il film non si limita a offrire una trasposizione del dramma personale. Emilia, nel pieno della sua trasformazione, non solo cerca di salvare sé stessa, ma si getta in una missione di riscatto sociale. La sua nuova esistenza non è solo un tentativo di essere finalmente sé stessa, ma diventa una lotta per la giustizia, per il recupero dei corpi e delle memorie di chi è stato distrutto dal sistema criminale. Le sue parole, ora pronunciate da una figura carismatica, sembrano cercare di riscrivere la storia. Ma la sua missione non è priva di ombre: mentre Emilia si erge a paladina degli oppressi, la sua vera natura rimane quella di chi è stato complice di un sistema di oppressione, di chi ha preso parte a quella violenza che ora condanna.

In questa figura, forse, si cela la più grande ironia dell’esistenza umana. La ricerca della propria identità, la volontà di riappropriarsi di sé attraverso un atto radicale come quello del cambiamento di genere, non è un cammino che possa portare a una redenzione lineare. Emilia, che rivendica il suo posto nel mondo con orgoglio e determinazione, diventa la versione incarnata della promessa di un futuro migliore, ma il passato rimane una cicatrice che non guarisce mai davvero. Non esiste una liberazione che possa veramente scacciare i fantasmi della violenza e della colpa.

Ecco, allora, che il film di Audiard, che potrebbe sembrare un messaggio edificante sulla possibilità di cambiare, si ribalta in un monito più cupo e disincantato. Non si sfugge mai al proprio passato. L’identità, in fondo, è una prigione dalla quale non si può evadere, perché ogni scelta, ogni passo in avanti, è segnato da ciò che siamo stati. La trasformazione che sembra liberatoria diventa la più grande delle illusioni: come ogni figura che si erge a simbolo di speranza, anche Emilia è destinata a fare i conti con il vuoto che si nasconde dietro il suo splendore.

Audiard inoltre sembra trattare la drammaticità della crisi legata alla violenza e alle sparizioni in Messico con una leggerezza così irritante da sembrare una caricatura del dolore. È come se ogni aspetto della tragedia fosse filtrato attraverso uno schermo di superficialità e frivolezza, dove ogni evento tragico perde di gravità per diventare l’ennesima occasione di un evento spettacolare. Emilia Pérez è un esempio lampante di come il tentativo di affrontare temi seri come la violenza e la sofferenza umana possa trasformarsi in un'esibizione stonata e frastornante.

In tutto questo tuttavia la musica non fa altro che diventare una forzata distrazione, una dimensione che stona con il resto e che amplifica solo le forzature emotive, senza aggiungere nulla di significativo. Invece di esplorare la complessità dell’identità o le profondità del destino, la colonna sonora sembra un tentativo mal riuscito di mascherare vuoti narrativi e di rendere sopportabile ciò che altrimenti sarebbe insostenibile. Non è un accompagnamento armonioso, ma un intrusivo strumento che accentua la confusione e la superficialità, cercando di dare significato a ciò che non ha alcuna consistenza. Il musical, invece di spingersi oltre le convenzioni per rivelare nuove possibilità, finisce per ridurre tutto a un'esibizione stilistica senza sostanza, un atto di pura strategia che svuota il contenuto di qualsiasi valore autentico. È come se il genere, piuttosto che servire a raccontare una storia, fosse un pretesto per scivolare nei territori dell'incredibile senza alcun rispetto per la realtà.

Gli attori, poi, si lanciano in un’acrobatica "recitazione-cantata" che non fa altro che esasperare il tutto. I dialoghi, che si trasformano in canzoni a tradimento, non fanno che aggiungere un livello di fastidio ulteriore, rendendo ogni scena ancor più innaturale e irritante. Se il tentativo di evitare il naturalismo è voluto, si capisce, non è di certo una scelta che giustifica la mescolanza del melodramma con una esuberanza ammiccante e barocca. I costumi sontuosi e l’eterna voglia di esibire stravaganza non fanno altro che sottolineare la distanza tra la reale tragedia e ciò che Audiard sta cercando di rappresentare, come se stesse ironizzando sulla sofferenza altrui.

E non possiamo non accennare a quella scena – un vero e proprio colpo di scena grottesco – dove un coro di medici, con la serenità di chi canta una ninna nanna, illustra la riassegnazione di genere con tanto di interventi chirurgici descritti come in una surreale sinfonia. Un momento che non solo è inopportuno, ma che sa tanto di provocazione gratuita e insensibile. Audiard ha optato per un approccio estremo, prediligendo uno spazio di esibizionismo sfrenato.

Certo, il film potrebbe piacere a chi cerca qualcosa di "diverso", qualcosa che non ha paura di osare. Emilia Pérez cammina su un filo sottilissimo, ma purtroppo spesso inciampa, trascinando con sé ogni intento di serietà. È un film che tenta di sembrare coraggioso, ma finisce per cadere spesso nella spettacolarità fine a sé stessa.

Nel mondo della spettacolarizzazione, la profondità viene sacrificata sull'altare della visibilità."

09-Jan-2025 di Beatrice