Verrà un giorno che l’uomo si sveglierà dall’oblio e finalmente comprenderà chi è veramente e a chi ha ceduto le redini della sua esistenza, a una mente fallace, menzognera, che lo rende e lo tiene schiavo… l’uomo non ha limiti e quando un giorno se ne renderà conto, sarà libero anche qui in questo mondo.
Roma, Fiumicino, Tevere.
Balera, musica sudamericana.
Ballano, si scatenano, si amano, si guardano, escono.
Lei vuole continuare a bere e a ballare e lo accusa di essere invecchiato.
Sono madre e figlio.
Julio ha circa quarant’anni e vive ancora con lei, colombiana, con una forte personalità.
In una casa sul fiume che sembra un bazar, colorata e piena di cose, lui dorme al piano superiore ma la madre non esita a raggiungerlo per raccontargli i sogni violenti che fa durante la notte.
Giocano, scherzano, si offendono e lui cerca di arginarla.
Tagliano la droga, la spacciano, lui sniffa di nascosto, va con le prostitute che paga con la droga, lei fuma cocaina davanti al figlio infastidito.
Di notte investono un cane e la madre vuole che venga seppellito mentre non prova alcuna pietà per il malessere di una “mula” della droga arrivata in casa in condizioni di salute pietose.
Vanno insieme dal medico, hanno entrambi disturbi importanti.
Se qualcuno cerca di allontanarlo, la madre non lo consente, non accetta intrusioni di alcun genere, vietate quelle sentimentali.
Deve uscire come un adolescente, Julio, senza farsi vedere né sentire: la madre prevaricatrice e indisciplinata lo minaccia con una pistola e insulta Ines la giovane “mula” che è rimasta in casa prima di ripartire per la Colombia.
Lavorano per un amico/spacciatore della zona che li invita al pranzo delle volgarità con tutti gli altri amici.
Julio è molto riservato la madre è ingombrante e, sebbene lui la ami, la osserva con sospetto.
Una grande discussioni li separa, lui si allontana, la madre lo insulta, gli da del coglione e gli confessa che sarebbe stato meglio abortire che metterlo al mondo.
Quando torna tutto è cambiato e nulla sarà come prima.
Un funerale, una cremazione, una lettera, un mistero mai svelabile.
Un viaggio, una vita, la solitudine, la paura.
Tra musica caraibica e elettronica latina di Nicolas Jaar, un angolo di sudamerica è ricostruito sulle rive del Tevere, tra degrado, alienazione, amore e disturbo.
Il ritmo della storia incalza:
Il film–afferma il regista -è una storia d’amore tra una madre e un figlio, una tragedia colorata che affonda i propri eroi nelle sfumature cangianti dei loro umori più intimi, nella delicatezza e nella violenza. È il racconto quasi mitologico di un legame basato sul sangue che ho tentato di sottrarre al giudizio, senza voler stabilire se ciò che unisce profondamente i due protagonisti sia un atto di amore, più forte delle convenzioni sociali, o un atto psichico disfunzionale che dimostra l’impossibilità di accettare una naturale separazione. Possiamo davvero tracciare una linea che distingua amore e follia, la forza irriducibile del sentimento dalla paura profonda di restare soli per sempre?
Artale racconta una storia d’amore misteriosa e simbiotica, fatta di complicità e di diffidenza, di esagerazione e sottrazione, di indissolubilità e frastuono, di oppressione e soggezione.
La madre tiene le redini di una vita sottratta al mondo, nascosta all’emancipazione, manipolata e sottomessa, forse per incapacità, perlopiù per impossibilità.
L’oscurità che pervade la biografia della donna e che irrompe come un colpo di scena conferma l’ingenuità infantile di Julio nella sua incapacità di interrogare sé e il mondo e nel suo meccanismo di rimozione reiterato e assolutamente inconscio.
La realtà dolente e indolente di cui è permeata la romanità di contro alla vitalità colombiana vivace e alquanto emotiva costruiscono l’identità di un vissuto composto da un linguaggio comune e tuttavia diverso per esprimersi, convivere, ibridarsi e sopravvivere.
Una forte tensione melodrammatica accompagna la storia di corpi in bilico tra il godimento e il sacrificio: la madre castrante e il figlio desiderante: Julio è stato la speranza e l’illusione, la forza e la debolezza.
Il rintocco di un libertà da inseguire e da temere, tra il gioco dello stare al gioco e la rivendicazione del proprio spazio di ribellione e di vita.
Un percorso di crescita necessario e impossibile, sebbene tardivo e ineluttabile: un corpo da trasformare, indagare, elaborare, metabolizzare.
E’ più difficile mantenere l’equilibrio della libertà che sopportare il peso della tirannia.