DOSTOEVSKIJ

Damiano D’InnocenzoFabio D’Innocenzo

4h 39m  •  2024

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Recensione di Beatrice On 13-Jul-2024

L’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità.

Li ho guariti da questa assurda malattia di vivere.

Un uomo scrive una lettera di scuse per i colleghi e per la figlia: tenta il suicidio ma fallisce.

Arriva una chiamata: una famiglia sterminata.

Enzo Vitello è un poliziotto, infila le dita in gola per vomitare tutti i farmaci che ha assunto e si reca sul posto.

La presenza della lettera sul luogo del delitto conferma che il killer è sempre lo stesso, denominato Dostoevskij proprio in virtù delle considerazioni che lascia scritte su fogli a quadretti scritti in stampatello: come un cruciverba completato.

Tutto si svolge in non luoghi, ameni, desolanti, pressoché bui e miserabili.

Compresa la caserma dove i poliziotti si riuniscono e dove è appena arrivato un nuovo collega sfidante e determinato.

Sono sette anni e le indagini non danno risultati: nessun movente, nessun nesso tra le vittime.

La casa di Vitello si trova lungo un fiume: è un uomo solo, ossessionato dalle lettere dell’assassino, attaccate sul muro di una camera.

Non solo ciò che ti infastidisce, ma anche ciò che ammiri negli altri è il riflesso della tua interiorità.

La Weltanschauung dell’autore degli omicidi accompagnata dalla descrizione degli ultimi momenti di vita delle vittime influenza le paranoie e i disturbi del poliziotto, padre di una ragazza che lo detesta.

Ambra è una squatter, tossicodipendente e condivide la sua abitazione con altre due coetanee.

Non ha più visto il padre dal quale è stata abbandonata da bambina.

Le ragazze lo chiamano perché Ambra non torna dalla casa degli zingari e il padre interviene, si rincontreranno: entrambi assumono sostanze e Enzo pur di rivederla le offre rifornimento.

Cibo in busta, lattine, soste in auto, campagne, animali, pollai dove lasciare biglietti, case desolate, scheletri architettonici, roulotte, miseria: la disperazione e l’abisso.

Dostoevskij fa notare che la vita media è di 82 anni di merda di cui calcola i mesi, le settimane, i giorni e le ore di dolore, di finzione, di sorrisi che sono smorfie di rimpianti, torture, oscurità oscenità.

Ai bambini andrebbe detto subito: ci siamo sbagliati a farvi, cercavamo solo qualcuno che potesse prendersi l’orrore al posto nostro.

La strategia della polizia prevede indagini nelle cittadine dove si svolgono gli omicidi, ma occorre seguire l’iter delle lettere; il killer vuole comunicare, parlare a qualcuno ed è importante che continui a farlo fino ad aprirsi abbastanza, fino a fare un passo falso.

Nessuna strategia tuttavia sembra plausibile per recuperare il rapporto con la figlia che ricorda ancora quando il giorno del suo sesto compleanno, il padre non arrivò mai e nonostante non fosse realistico che sarebbe arrivato Ambra gli aveva comprato con tutti i suoi risparmi una Fanta originale.

Ennesimo omicidio, un cadavere cade su un’auto dall’alto, Vitello trova la lettera ma per non farla trovare al suo giovane collega la ingoia, la ingloba, e inizia così un nuovo percorso, individuale, personale.

Consegna il tesserino e inizia un nuovo iter: un’indagine in un ex orfanotrofio perché il caos infila quel posto dove non tornerò più… la città dei figli sbagliati, persi, il CONTENITORE (Dostoevskij, non Fedor)

Tra l’episodio Psycho, a casa di un orfano ormai adulto, la scena esilarante del capo di Enzo in un bar in aperta campagna, e quella imperdibile della receptionist di un motel/bettola, un video inviato a tutti i colleghi della polizia riprende la figlia di Vitello in una gangbang con neri in stile Ninphomaniac di Lars von Trier: una feroce punizione per il padre imperdonabile.

Quel padre che vende la casa sul fiume a due giovani in attesa di un figlio ad un prezzo stracciato di cui farà omaggio alla figlia: un ultimo incontro, una malattia, una confessione, una spiegazione dell’abbandono, una reazione, una scena devastante, implacabile, indimenticabile.

D’altronde l’unico modo per garantire un futuro migliore è dargli un presente raccapricciante

Gli incontri con il cuoco, con Carannante la scoperta di Ambrosoli e il sospetto che si costruisce, si struttura, si solidifica

Un cane che abbaia, un finale western torbido, una lettera, un testamento: la morte non andrebbe cercata, è qualcosa che circonda ogni nostro gesto, pensiero, azione.

Enzo Vitello si chiamava, voleva me o voleva la morte: ha trovato entrambi e credo sia stata una doppia delusione.

Un fiume, la luce, la natura. FINE

Enzo Vitello è un ossessivo, abbastanza strutturato a reggere il peso del mondo ma non di sé stesso: è un uomo in forte difficoltà che resiste e desiste a fasi alterne.

Tutto è essenziale, artigianale, scarno, anche il tempo meteorologico: non piove mai, non c’è mai il sole. Tutto è rarefatto, grigio, anonimo, indefinibile, irriconoscibile, irrintracciabile.

Il mondo è un CONTENITORE, un noumeno che incastra il fenomeno, una volontà che divora la rappresentazione.

La battuta sul maschilismo che non intravede la possibilità che il killer sia una donna: quella donna che è sempre il luogo della devastazione, della manipolazione, della alienazione, della sopraffazione, della diffidenza, della lacerazione, dell’abuso.

Un non luogo per un non personaggio.

L’ontologia della miseria umana.

Un puzzle di location metafisiche.

La comfort zone non ha spazio.

L’irrappresentabile è rappresentato.

Una cappa avvolge l’esistenza senza orizzonte.

Il luogo dell’apriori comprime e censura la catarsi.

Provare a stare al mondo è un incubo che riavvolge la pellicola in loop.

Frammenti di un discorso indecoroso: la vita, l’esistenza, il significato.

La città dei figli sbagliati ovvero l’ossessione di essere figli e di essere sbagliati, vivi e sanguinanti, feriti a morte.

I fantasmi ci fanno soffrire ma vanno svelati.

La caverna platonica di Fabio e Damiano individua il non luogo nel non spazio viscerale, dove si insinua la sonda che indaga le frattaglie, il cervello, il cuore, le animelle, il fegato…nelle quali è inciso il labirinto intestinale del nostro vissuto immorale o amorale che sia. Una tac a spirale, una risonanza magnetica nucleare ripercorre le interiora di una identità frammentata, logora e lacerata, slabbrata, dilatata e spanata che intravede la sua possibilità solo nell’annullamento di sé stessa.

Qualche piccola imperfezione non intacca la complessità dell’opera assolutamente travolgente dei fratelli D’Innocenzo perché gli spazi interiori sono muti e spesso intasati di banalità discordanti.

Il suicidio materiale di Vitello non poteva compiersi, solo quello dell’oltre corpo era da farsi e la vera liberazione sta nella morte dell’identità e non della materia mai sufficiente a garantirla.

Tutto è pastorale, nessun glamour, nessun neon, nessuna seduzione, tutto è respingente, ostile, una zona paludosa una zona morta.

Il luogo dell’interiorità non ha estetica, le viscere, la sonda colonscopica è la metafora del luogo che si va a perlustrare.

La vita ti sodomizza.

L’unico accanimento terapeutico plausibile è l’eutanasia, la liberazione dal corpo.

Tutto opaco, oscuro, ….

Solo l’ultima inquadratura vede il sole, il verde e un corso d’acqua: la caverna Platonica dei fratelli è etica più che gnoseologica, esistenziale più che culturale. Il buio dell’insensatezza avvolge la vita di ciascuno relegandola e condannandola al fallimento programmato: l’unico abbaglio di luce sta nella morte che esala e esaurisce il respiro affannoso della vita.

Il dolore peggiore che un uomo può soffrire: avere comprensione su molte cose e potere su nessuna.

13-Jul-2024 di Beatrice


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