
Recensione di Beatrice On 20-Aug-2023
Tra la Georgia e la Repubblica di Abkhazia c’è il fiume Inguri.
In primavera durante lo scioglimento del ghiaccio l’acqua porta a valle un’infinità di detriti che si depositano sul fiume formando così delle isole temporanee.
Queste formazioni stagionali sono infatti costituite da sostanze molto fertili e consentono a chi vi si dedica di ricavare nutrimento per tutto l’inverno successivo.
Una guerra di secessione tormenta la Georgia mentre un vecchio contadino al quale è rimasta una nipote adolescente orfana coltiva una di queste isole.
Instancabile, costruisce una baracca e con un lavoro duro durissimo sfida le sorti della natura. La nipote viene spesso adocchiata dagli uomini dell’esercito mentre un ribelle ferito viene curato dall’anziano contadino.
Una fotografia maestosa e una pressoché totale assenza di dialoghi riescono a raccontare una lotta fratricida tra georgiani e ribelli; un amore incondizionato e protettivo del nonno per la nipote alla ricerca di emozioni dettate dai cambia-menti del corpo; una quotidianità implacabilmente ridondante, una povertà crudele, una vita scandita da una natura generosa e feroce, una pelle solcata dai ritmi dilatati e faticosi.
Lo sguardo è attento e preciso, mai distratto dall’inessenziale. Come essenziale è quella terra a scadenza che produce granoturco e che parla solo il suo linguaggio.
Una lezione di vita dimenticata dal nostro mondo ormai regno del superfluo.
Una piccola barchetta, del pesce e un fuoco rudimentale per la brace; mentre quel minimo progetto di vita si deve arrendere di fronte al traguardo.
Infinito lavoro, sguardi, attese, echi e suoni della natura suscitano una miriade di interrogativi intimi e spudorati. Una poesia di immagini struggenti racconta una realtà così lontana e così invadente.
Candidato all’oscar come miglior film straniero.
Un film sobrio, necessario, inquietante, nel quale il sublime matematico kantiano si incontra con quello dinamico mentre la natura detta la morale.
20-Aug-2023 di Beatrice