
Recensione di Beatrice On 22-Mar-2024
Mentre il presidente degli Stati Uniti d’America cerca di ripetere dentro le mura della casa bianca “la più grande vittoria della storia del genere umano” ostentando un tono rassicurante, fuori si assiste ad una feroce guerra civile.
Le prime scene di manganellate, sparatorie, violenze contro i cittadini; i giornalisti cercano di documentare attraverso servizi fotografici.
Sulle auto della polizia c’è scritto: cortesia, professionalità, rispetto.
Si comprende subito che la situazione non è così drammatica solo in quel contesto ma si estende su tutto il territorio statunitense.
Le forze occidentali della California e del Texas insieme all’alleanza della Florida procedono verso la capitale Washington District of Columbia.
Dopo aver trascorso una notte in albergo dove è pericoloso anche prendere l’ascensore, la reporter di guerra Lee Miller con il suo maestro Sammy, il giornalista Joe, ai quali si unisce una giovanissima fotografa, sono diretti verso la capitale degli Stati Uniti.
Sulle strade, invase da auto incidentate, bruciate, abbandonate, si procede con cautela: è difficile anche fare rifornimento, l’esercito e i civili sono pronti a uccidere, torturare e vendere gasolio a prezzi da mercato nero.
Durante il tragitto solo una località sembra non prendere in considerazione quello che sta accadendo e gli abitanti ostentano indifferenza al mondo che li circonda.
Un film che racconta, un paese con uno sguardo mostruoso, con una violenza raggelante e contemporaneamente ipnotica: la musica riesce a esaltare i contrasti attraverso il ricorso a melodie in forte alternativa alle scene rappresentate.
Una pellicola di forte denuncia sociale sulla politica cinica, indifferente, disconnessa, squilibrata, feroce che partorisce un esercito e dei civili alienati, razzisti, nazionalisti, documentabili attraverso un giornalismo adrenalinico, che non può porsi domande ma solo testimoniare e raccontare i fatti.
L’unica domanda alla quale si deve saper rispondere correttamente è: Che tipo di americano sei?
Si toccano atmosfere horror quando i reporters incontrano un villaggio: Winter Wonderland, allestito per il passato natale, dove tra manichini, pupazzi e giocattoli per l’infanzia ci sono cecchini e soldati ossigenati con smalto colorato sulle unghie pronti ad uccidere e farsi colpire senza pausa e soprattutto in un tempo indefinito.
Girato precedentemente agli accadimenti di Capitol Hill, esce nelle sale quando le presidenziali sono ancora sotto lo slogan “Make America Great Again”; rappresenta in modo lucido e non così lontano dalla realtà, l’atmosfera apocalittica che il mondo sta vivendo, non solo per questioni climatiche ovviamente.
La psicopatologia del potere, l’assenza della politica, il delirio dell’esercito e dei civili, le esecuzioni in qualunque angolo di strada, dove si indossano occhiali rossi per vedere tutto dello stesso colore del sangue.
Corpi e fosse comuni, barricate, mitra, proiettili, torture e scatti fotografici.
I giornalisti sono visti come combattenti nemici; la necessità di testimoniare l’orrore che si sta vivendo si confonde tra la scelta etica e il meccanismo inarrestabile di utilizzare ciascuno l’unico scatto o sparo che si ha a disposizione.
La musica testimonia la contraddizione e l’assurdità del contesto rappresentato, l’impossibilità di comporre una colonna sonora che accompagni l’irrappresentabile, la schizofrenia del presente, il paradosso dell’oscenità del reale.
La mancanza totale di leader nel mondo: la ricerca del potere fine a se stessa.
Lo scenario contemporaneo è la guerra (IN)civile, il negoziato non negoziabile: la morte è routine e le campagne elettorali l’unica realpolitik.
Un film di contrasti, assurdità, crudeltà, insensatezza: una realtà in balia della leadership del caos, dove il paese che viene ancora considerato l’emblema della democrazia non è altro che la rappresentazione anticipatrice del collasso mondiale; un universo dei mezzi che lavora prescindendo da qualsiasi fine in un assoluto strumentale e astorico.
L’uomo non può più essere considerato come parte del sistema politico e sociale ma come ambiente problematico del sistema politico e sociale.
Non c’è più spazio per l’individuo teorizzato dalla Modernità che si credeva principale soggetto delle sue democrazie. Nella post-democrazia in cui viviamo, le esistenze sono funzionamenti, gli individui soltanto profili, la “politica” gestione.
22-Mar-2024 di Beatrice
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2014