A DIFFERENT MAN

Aaron Schimberg

1h 52m  •  2025

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Recensione di Beatrice On 14-Mar-2025

Lottare contro la propria sofferenza è il modo più sicuro per impedirsi di essere felici.

Edward, un uomo reso estraneo a sé stesso dalla malattia e dalla reazione altrui, si snoda tra il desiderio di affermazione e la disillusione di un mondo che gli impone di essere altro da sé.

Intrappolato in una corporeità che lo relega ai margini, accetta un trattamento sperimentale che gli concede il dono ambiguo della normalità. La sua trasformazione, anziché aprire spazi di libertà, lo incatena a un nuovo paradosso: ciò che lo rendeva invisibile ora lo priva di autenticità. La narrazione insiste su questo ribaltamento, eppure lo fa in modo programmatico, come se il film fosse più interessato a ribadire un concetto piuttosto che a metterlo in discussione.

Il film si avventura nel territorio spinoso dell’identità e della percezione sociale, cercando di costruire un discorso che però si rivela appesantito da una sovrabbondanza di temi e una scrittura priva di sottigliezza. Il cinema ha spesso esplorato il dualismo tra essere e apparire, ma qui il tentativo si traduce in una meccanica dimostrazione di tesi, più che in un’autentica ricerca del senso dell’esistenza.

L’opportunismo di Ingrid, l’aspirante drammaturga che sfrutta la storia di Edward per i propri fini artistici, non è che uno dei tanti elementi che contribuiscono a un impianto eccessivamente artificioso. Il gioco meta-teatrale – con Edward/Guy che assiste alla propria espropriazione identitaria da parte di un “altro” portatore della sua antica condizione – dovrebbe essere il cuore pulsante della riflessione, ma si risolve in una costruzione prevedibile, priva della tensione necessaria a interpellare davvero lo spettatore.

Il film sembra muoversi su binari prestabiliti: si enuncia la tesi secondo cui la diversità, una volta riassorbita nella norma, diventa una sorta di condanna e si sviluppa il paradosso in modo pedissequo, senza mai interrogarsi sulle reali implicazioni di questa dialettica. La narrazione, per quanto aspiri a una lettura brillante e sovversiva, finisce per appesantirsi in una retorica che oscilla tra il didascalico e il ricattatorio, senza lasciare margine a una reale ambiguità interpretativa. L’abbondanza di messaggi – dal body shaming alla critica del conformismo, dalla riflessione sulla mercificazione della diversità al tema del successo come inganno – si accumula senza una vera sintesi, disperdendosi in una molteplicità di spunti che restano in superficie.

Ma il nodo più significativo, e forse il più trascurato, è che il protagonista sembra essere sempre privo di una vera personalità, sia nella malattia che nella sua guarigione/normalizzazione. Edward non possiede una propria identità né quando è emarginato né quando diventa accettabile agli occhi della società. Il suo destino è sempre deciso dagli altri: dal medico che gli offre una via d’uscita, dalla vicina che sfrutta la sua storia, dal nuovo outsider che lo spodesta. È come se il film volesse suggerire che la vera tragedia non risieda nella deformità o nella sua scomparsa, ma nell’assenza di un sé autentico, di una voce interiore che possa sfuggire alle categorizzazioni imposte dall’esterno.

Alla fine, ci si chiede se il vero problema/concetto rappresentato non sia la deformità o la sua scomparsa, ma la tragica impossibilità di possedere un’identità autentica in un mondo che ci vuole sempre altro da noi stessi ma anche questo sembra poco plausibile.

A differenza di altre opere che hanno saputo giocare con il concetto di metamorfosi identitaria, qui la scrittura si affida a un meccanismo che procede inesorabilmente verso la dimostrazione del suo assunto, privando la storia di quella zona d’ombra in cui il dubbio e l’inquietudine potrebbero generare una vera esperienza estetica ed esistenziale. Il risultato è un film che pretende di sovvertire le aspettative, ma finisce per confermare schemi prevedibili, senza mai mettere in crisi lo sguardo dello spettatore. Un’occasione mancata, un esercizio di stile che affastella spunti senza riuscire a dar loro una profondità realmente perturbante.

Dentro di noi c’è qualcosa che non ha nome, e quel qualcosa è ciò che siamo.

14-Mar-2025 di Beatrice