A COMPLETE UNKNOWN A COMPLETE UNKNOWN

James Mangold

2h 20m  •  2024

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Recensione di Beatrice On 17-Jan-2025

Ehi, Woody Guthrie, ti ho scritto una canzone

Che parla del buffo mondo che abbiamo davanti.

Sembra malato, è affamato, stanco e dilaniato

sembra morto ma è appena nato

(Bob Dylan)

Siamo nel 1961, così inizia il film.

Bobby, un perfetto sconosciuto, magro e trasandato, va a trovare Woody Guthrie a New York ma scopre che si trova in ospedale nel Greystone Park Psychiatric Hospital del New Jersey dove sta morendo di malattia di Huntington..… qui gli canta una canzone in presenza di Pete Seeger e incanta entrambi.

Il titolo del film, ispirato da un verso di Dylan in Like a Rolling Stone, funge da monito già a partire dai primi istanti: A Complete Unknown. È il rifiuto di qualsiasi tentativo di illustrare o chiarire, di ridurre l’incomprensibile a qualcosa di assimilabile e digeribile. La pellicola, pur dipingendo con un'accuratezza quasi sacrale la scena folk dei '60 e il ritratto di figure come Dylan, Guthrie, Seeger, Cash e Baez, rifiuta la logica di ogni biopic convenzionale, nel tentativo di rendere il "mistero Dylan" in tutta la sua insondabilità. Il giovane Bob è un uomo che è simultaneamente parte del popolo e al di sopra di esso, un corpo fisico che partecipa al grande gioco della vita ma che, al contempo, sembra incapace di essere assorbito da essa. La sua sfida alle convenzioni sociali, alle aspettative romantiche, alla musica stessa, è il cuore pulsante della sua esistenza, ma dietro quella sfida rimane un'ombra, un enigma senza soluzione. Forse la sua autenticità è reale. Forse è solo una messa in scena. E forse, in fin dei conti, non vogliamo nemmeno sapere.

Il film dipinge la vertiginosa ascesa di Dylan verso la fama universale.

Presto, Dylan trova il suo posto nella giungla artistica di Greenwich Village, dove la sua figura si intreccia con quella di Sylvie Russo, una donna che non è semplicemente una musa ma una compagna di intelligenza acuta. Eppure, questo rapporto è destinato a scontrarsi con il suo destino esistenziale: quando Dylan trova finalmente il suo ritmo, il film salta al 1965, momento in cui la sua fama è consolidata e il suo interesse per la chitarra elettrica diventa il fulcro di una tempesta emotiva, una frattura tra lui e la sua base di fan, tra lui e le sue origini, tra lui e la sua stessa essenza. L’elettricità di quel suono minaccia di divorarne il mito.

In questa resa scenica, Timothée Chalamet è impeccabile, spingendo il personaggio di Dylan verso le sue contraddizioni più cruente: brillante e fastidioso, un eroe e un antihéroe, un uomo che costruisce la propria mitologia attraverso ogni parola, ogni gesto, ogni silenzio. La sua esistenza, tanto affascinante quanto disarmante, è un gioco perpetuo tra il bisogno di essere amato e la necessità di sfuggire a quell’amore, un moto incessante che ne rende l’essenza indefinibile.

Nel contesto delle sue relazioni, Dylan non incarna esattamente il "fuckboy", uno che si muove senza riguardo per gli altri, pur essendo incapace di esistere senza la loro presenza. Chalamet, con la sua interpretazione magnetica, cattura questa essenza: un artista che naviga attraverso il caos come se fosse l’unica via possibile per arrivare a sé stesso, ma il cui viaggio non è mai lineare, né per lui né per chiunque altro.

“Per citare Freud, divento piuttosto paranoico,” scrisse in una delle sue lettere a Cash, un lampo di autoconsapevolezza che precede l’incontro con l’apoteosi del suo concerto elettrico al Newport Folk Festival del 1965. Qui, un pubblico di beatniks si ergeva con sguardi di disapprovazione, come sentinelle di un mondo in cui il passaggio dal folk al rock sembrava una bestemmia, un tradimento di una visione del mondo. Un passaggio che, per molti, segnava la fine di un’epoca: il folk, come strumento di resistenza – per i diritti civili, per la pace – veniva abbandonato, e il suo abbandono minacciava di dissolvere il fondamento stesso della lotta. Eppure, Dylan avanzava, come se guidato da un impulso che trascendeva le richieste di coerenza ideologica.

Le donne della sua vita, in particolare Joan Baez e Sylvie, ne incarnano l’altra faccia, quella che ricerca la verità dietro la maschera, ma che, alla fine, trova solo la sua incompiutezza. In loro, Dylan sembra essere intrappolato, in un perpetuo confronto tra la costruzione di un mito e la necessità di essere compreso in modo più profondo, più umano. La tragedia di Dylan non è la sua evasione, ma la sua incapacità di lasciare che gli altri viaggino con lui nella sua totale dissonanza.

Nel film, la scena di Pete Seeger che quasi tenta di distruggere i cavi elettrici di Dylan con un’ascia – un gesto carico di simbolismo – diventa l’emblema di una resistenza feroce all'elettricità del cambiamento, come se un'idea, un suono, potessero essere separati dalla sua potenza rivoluzionaria. Ma la saggezza di Pete, il cui discorso sul "cucchiaino" è riportato in tutta la sua magnificenza, rievoca la battaglia silenziosa della protesta: un giorno, i nostri piccoli gesti, infinitesimali ma incessanti, sovvertiranno l’equilibrio, ed il mondo si chiederà come mai tutto sia accaduto così in fretta.

A Complete Unknown non è tanto una biografia, quanto un'esperienza che trascende il tempo e lo spazio, come il suono stesso di Dylan, un artista, un poeta, che non è mai stato destinato ad essere "compreso", ma solo vissuto.

Quante strade deve percorrere un uomo

prima di essere chiamato uomo?

……

E per quanto tempo può un uomo girare la sua testa

fingendo di non vedere?

E quante orecchie deve avere un uomo

prima che ascolti la gente piangere?

E quanti morti ci dovranno essere affinché lui sappia

che troppa gente è morta?

la risposta, amico mio, se ne va nel vento,

la risposta se ne va nel vento

(Bob Dylan)

17-Jan-2025 di Beatrice