Body of Evidence

Body of Evidence

Artista e regista di origini iraniane Shirin Neshat vive a New York dove continua a sperimentare con fotografia, video, cinema e opera lirica: mezzi artistici che impregan di immagini e narrazioni altamente poetiche e ricce di contenuti politici, in grado di mettere in discussione questioni legate a potere, religione, razza, genere e rapporto tra passato e presente, tra Oriente e Occidente, tra singolo e collettività attraverso la lente delle sue esperienze personali di donna iraniana in esilio.
Recensito da Beatrice 07. April 2025

Quando non si può gridare, l’immagine grida per noi.
( Shirin Neshat)
 
 Sala 1 - Fervor (2000) 
Ultimo atto di una trilogia inaugurata da Turbulent e Rapture (visibili nelle altre sale), Fervor si configura come un’indagine lirica e perturbante sul dualismo sessuale all’interno della struttura normativa della società islamica iraniana.  
Al centro, l’apparizione fugace di un uomo e una donna: due soggettività che si sfiorano per la prima volta in un luogo sospeso, arido e privo di coordinate sociali – uno spazio liminale dove l’ordine simbolico si affievolisce.  
Lo sguardo che si incrocia, istantaneo e bruciante, è già memoria di una passione impossibile. Ma la direzione dei corpi si scinde subito: ciascuno si ritira nel proprio solco esistenziale, come richiamato da un codice invisibile.  
Il secondo incontro si svolge in uno spazio ritualizzato, codificato: un contesto pubblico – forse religioso, forse politico – dove la separazione tra maschile e femminile è resa tangibile da un sipario nero che incide la sala come una ferita. Da un lato uomini vestiti di bianco, dall’altro donne avvolte nel nero dell’invisibilità istituzionalizzata.  
La voce dell’autorità maschile, incarnata da un oratore, ammonisce contro il desiderio, nominato come colpa e minaccia.  
Lei, silenziosa, abbandona la scena.  
Il doppio canale della proiezione nega ogni possibilità di incontro effettivo: ciò che si dispiega è una coesistenza parallela, mai convergente. Una prossimità che resta sempre potenziale, mai attuale.  
Fervor non racconta solo la repressione del desiderio, ma il modo in cui tale repressione è interiorizzata e normalizzata da entrambi i sessi, come una grammatica affettiva appresa e replicata nel tempo.
 
 
Sala 5 - The Fury  
L’ingresso alla sala è scandito da fotografie in bianco e nero che non si limitano a introdurre l’opera, ma ne costituiscono già parte integrante. I corpi femminili, nudi e frontalmente esposti, evocano al contempo la sovranità e la vulnerabilità, l’orgoglio e la ferita. Ogni immagine è un campo di forze in tensione, in cui bellezza e trauma coabitano senza pacificazione.  
I versi della poetessa Forough Farrokhzad – scritti direttamente sulle immagini – fungono da controcanto: parole che incidono la superficie fotografica come cicatrici poetiche. Farrokhzad, morta giovanissima, aveva anticipato con la sua voce il dramma della soggettività femminile ridotta a oggetto, desiderata e violata all’interno di una società patriarcale pre-rivoluzionaria.  
La video-installazione a doppio canale si fa più cruda: lo spettatore è posto dinanzi alla testimonianza indicibile dello stupro istituzionalizzato. Le protagoniste – donne incarcerate per motivi politici – emergono come sopravvissute a una violenza che il corpo non riesce a espellere, prigioniere anche fuori dalla prigione.  
Non è solo denuncia: The Fury è un atto di restituzione, un rito di resistenza simbolica. Il corpo femminile diventa qui terreno di scontro e dispositivo simbolico – luogo di potere, ma anche di assoggettamento.  
Un corpo che grida non solo per sé, ma come emblema di tutte le soggettività negate.
 
L’intero percorso espositivo si configura come un attraversamento esistenziale della soggettività femminile in contesti oppressivi, e al tempo stesso come una riflessione viscerale sul potere delle immagini e del linguaggio poetico come forme di insubordinazione.  
Le opere esposte non parlano solo dell’Iran, ma della condizione universale della carne esposta alla norma, alla violenza e alla dissimulazione.  
L’artista ci consegna uno spazio in cui l’intimità è politica, e il desiderio – impedito, ferito, sopravvissuto – diventa la materia viva attraverso cui pensare la libertà.  
In questo senso, la mostra agisce come un dispositivo di smascheramento: ogni sala si apre come una ferita, ma anche come una possibilità di riscrittura.  
Il linguaggio visivo si fa atto etico, esistenziale, e infine estetico.  
Un’opera radicale che restituisce all’arte contemporanea la sua funzione più potente: quella di interrogare l’umano dove l’umano è stato negato.
 
Scrivere è un modo per lottare contro ciò che ci cancella.
(Forough Farrokhzad)
 
A cura di Diego Sileo e Beatrice Benedetti
Dal 28marzo all’8 giugno 2025
Pac Padiglione d’Arte Contemporanea
 
Orari apertura
10-19.30 /  Giovedì  10-22.30
Chiuso lunedì